Pubblicato il 31 Gennaio 2018

America Nera: la cultura afroamericana per il “Black History Month”

di Melissa Pignatelli

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Quali sono le radici della cultura afroamericana? Il mese che abbiamo davanti, Febbraio, è dedicato alla memoria dell’ “olocausto afroamericano” ovvero della storia disumana della schiavitù in Nordamerica. Una studiosa italiana, Maria Giulia Fabi, docente all’Università di Ferrara, ha scritto una chiarissima introduzione a quello che è un triste capitolo della storia dell’umanità, America Nera: la cultura afroamericana, edito da Carocci, ovvero le radici storiche della tratta degli schiavi, portati dall’Africa dai coloni britannici per la coltivazione dei campi del Nuovo Mondo.

La Fabi riporta sia i motivi che innescarono il meccanismo della schiavitù, sia un accenno a quello che fu il modo di protrarlo per due secoli e mezzo sia i metodi di resistenza che portarono i Neri d’America ad elaborare la loro identità contro quella di coloro che li usavano. Leggiamo così:

“I primi venti africani, tra i quali si contavano almeno tre donne, arrivarono su una nave olandese nelle colonie britanniche dell’America del Nord nel 1619, un anno prima dello sbarco dei padri pellegrini del Mayflower a Plymouth. Erano servi a contratto, avevano cioè il diritto di tornare liberi dopo aver lavorato per i loro padroni per un numero prestabilito di anni. Nonostante questi inizi, la schiavitù prese piede velocemente nelle colonie britanniche.

Più resistenti alle malattie e più abili nel lavoro agricolo delle popolazioni indigene, gli africani divennero oggetto di una tratta internazionale di schiavi che si rivelò altamente remunerativa per i commercianti portoghesi, inglesi, olandesi e francesi. Si andò presto definendo quell’istituzione della schiavitù che avrebbe dominato in Nordamerica per due secoli e mezzo, e all’interno della quale gli schiavi venivano considerati chattels, ovvero “beni mobili”, non esseri umani.

Già negli anni sessanta del Seicento, in Virginia e in Maryland, la legge rendeva la schiavitù una condizione ereditaria e permanente per gli africani. Rovesciando la tradizione legale inglese, secondo la quale i figli seguivano la condizione del padre, si moltiplicarono anche le leggi che dichiaravano schiavi tutti coloro che nascevano da madre schiava, leggi che implicitamente sanzionavano le pratiche sistematiche di violenza sessuale sulle schiave da parte dei padroni bianchi e le rendevano redditizie, visto che i figli di queste unioni seguivano la condizione della madre, diventando anch’essi beni mobili da far lavorare gratis o da vendere al mercato degli schiavi.

All’inizio del Settecento la schiavitù negli Stati Uniti era regolata da leggi che imponevano dei fortissimi limiti alla vita di tutti i neri, sia schiavi che liberi. Legalmente, gli schiavi non godevano di diritti civili e non potevano votare, né testimoniare contro un bianco in tribunale, né possedere proprietà. Non potevano nemmeno sposarsi con rito civile o religioso, né tantomeno vantare diritti sulla propria prole, e sono numerosissime nella letteratura abolizionista bianca e nera le scene che mostrano la separazione straziante di genitori e figli venduti a padroni diversi.

Questo tentativo sistematico di ridurre gli schiavi africani a oggetti, a non-persone, veniva legittimato culturalmente da argomentazioni sulla presunta inferiorità naturale degli africani che avevano radici profonde nella cultura occidentale e che si ritrovano anche nelle opere di famosi intellettuali europei, quali David Hume (1711- 1776), Immanuel Kant (1724-1804) e Friedrich Hegel (1770-1831).

Questi pregiudizi razziali servivano grandi interessi economici nel Nord, dove enormi fortune vennero accumulate con la tratta degli schiavi e dove questi venivano impiegati come manodopera, ma anche come artigiani e marinai, e in modo ancora più evidente nel Sud, dove i piantatori di tabacco, riso e cotone, grazie alla manodopera degli schiavi, si imposero come classe dominante. La schiavitù divenne ancora più redditizia dopo il 1793, dopo la messa a punto della cotton gin, una macchina in grado di separare il seme dalla fi- bra del cotone rendendone più veloce la lavorazione e dando nuova vita all’economia delle piantagioni e alla tratta interna degli schiavi (la tratta internazionale era stata abolita dal Congresso degli Stati Uniti nel 1808, almeno ufficialmente). Allo scoppio della guerra civile nel 1860, il cotone, che suppliva ai bisogni delle industrie tessili di Inghilterra e Francia, rappresentava il 60% del valore di tutte le esportazioni statunitensi e il lavoro non retribuito degli schiavi era alla base di questa ricchezza.

Gli orrori e le violenze che caratterizzavano la condizione degli schiavi nel Nuovo Mondo avevano un tremendo preludio nel middle passage, la famigerata traversata atlantica sulle navi negriere, vere e proprie prigioni galleggianti. Radunati e “smistati” in fortezze sulla costa occidentale dell’Africa (quella di Goree, in Senegal, è oggi meta di pellegrinaggi e turismo culturale), gli schiavi venivano poi stipati e incatenati nelle stive in modo attentamente calcolato per ammassarne il maggior numero possibile 8 e massimizzare così i guadagni. La figura 1 illustra bene la dimensione capitalistica della tratta degli schiavi. Il lungo viaggio transatlantico, che durava vari mesi, in condizioni sanitarie disumane, senza aria né luce, con poca acqua e vitto scarso, era caratterizzato da una mortalità molto alta, che superava il 30%. Le navi negriere attiravano un seguito di pescecani, perché di mattina i morti venivano gettati in mare.

Così vennero trasportati, contro la loro volontà, 15 milioni di africani nelle Americhe.

Questo “olocausto afroamericano” è l’esperienza traumatica che differenzia l’africano dall’afroamericano.

La “terra della libertà” evidentemente non era tale per tutti, e la nazione che si proponeva come un nuovo esperimento democratico rimaneva invece ancorata a una delle istituzioni più antiche e barbariche del Vecchio Mondo.

Gli orrori della traversata atlantica e la violenta disumanità della schiavitù resero incredibilmente difficile, ma non riuscirono a eliminare, la resistenza degli schiavi, la cui lotta per la libertà prese molteplici forme. Quelle più dirette furono gli ammutinamenti sulle navi negriere (immortalati, a livello letterario, nel 1853 nella novella Lo schiavo eroico dello scrittore afroamericano Frederick Douglass, egli stesso un ex schiavo, e dal romanziere americano bianco Herman Melville in Benito Cereno, del 1855.

Furono però anche altre le pratiche di resistenza quotidiana che assicurarono la sopravvivenza psichica e culturale della popolazione afroamericana durante due lunghi secoli e mezzo in condizioni di così brutale cattività. Il folklore, la cultura popolare afroamericana, tramandata oralmente, svolse una funzione fondamentale nell’elaborazione e preservazione di un ethos, di un sistema di valori attraverso il quale gli schiavi opposero attivamente il proprio punto di vista a quello dei loro oppressori.

Un amalgama di elementi culturali africani adattati e fusi con le esperienze nel Nuovo Mondo, favole, proverbi, canti di lavoro e spiritual rappresentano un ricchissimo patrimonio culturale che ha influenzato profondamente anche la tradizione letteraria afroamericana, e non solo per i contenuti, ma anche per le soluzioni formali adottate.

Il fatto che per lungo tempo questi canti siano stati fraintesi come espressioni della gioia di vivere degli schiavi, invece che come strumenti di resistenza e di elaborazione culturale di un popolo, rivela sia la insondabile pertinacia dei pregiudizi razziali dei coloni euroamericani, sia la consapevolezza e l’uso strategico che gli afroamericani fecero di quei pregiudizi per ritagliarsi uno spazio, seppur limitato, di autonomia all’interno di una istituzione disumana”.

Gli eventi in programma per il Black History Month ci permettono di ripensare, di non dimenticare la storia afroamericana, specie alla luce sia di un recente ritorno dell’intolleranza nei discorsi politici nazionali ed internazionali, sia di pregiudizi e nuovi razzismi soprattutto verso le masse di afroamericani migranti.

In fondo le immagini quotidiane delle carrette del mare non ci sembrano poi tanto diverse dallo schema d’imbarco che illustra quest’articolo.

Melissa Pignatelli

Link al libro e testo citato: Maria Giulia Fabi, America Nera: la cultura afroamericana, Carocci Editore, 2002, link al libro qui.

Immagine tratta dal libro sopra citato: “Diagramma d’imbarco degli schiavi su una nave negriera”.

A Firenze, Justin Radolph Thompson, afro-americano originario di New York, Janine Gaelle Dieudji, curatrice di mostre franco-camerunese e Andre Halyard, musicista afro-americano di New York, propongono un intenso programma di appuntamenti volti a celebrare l’incontro tra  la cultura africana e la produzione artistica italiana. Il Black History Month di Firenze si incentra infatti sulle afro-discendenze, ovvero tutte le identità che condividono un’eredità culturale con le varie regioni dell’Africa e le spiega attraverso numerose lezioni, conferenze, mostre, esibizioni e rappresentazioni teatrali.

Per conoscere gli appuntamenti dell’edizione fiorentina del Black History Month è possibile consultare l’elenco sul sito del giornale locale Il Reporter.

 

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