Pubblicato il 18 Giugno 2018

Le culture sono ibridi: creatività e spostamenti fanno parte della storia umana

di Melissa Pignatelli

In un mondo sempre più interconnesso nel quale le strumentalizzazioni delle politiche locali fanno pensare più ad un arretramento del pensiero piuttosto che ad un progresso, ci piace ricordare la riflessione di un grande antropologo italiano, Ugo Fabietti, sulla concretezza della cultura come un ibrido, qualcosa in continuo mutamento, rimescolamento, che si aggrega e si ricompone nel flusso di significati che ogni giorno circolano nel panorama mediatico e relazionale nel quale siamo immersi. Niente di fisso, niente di puro: le culture seguono logiche meticce traendo proprio da esse la forza che permette ad ognuno di fabbricare il proprio modo di adattarsi all’ambiente.

Fabietti spiegava così le “culture ibride” ed il “pensiero meticcio” nel saggio Dal tribale al globale, 2000:

“le culture ibride sono le nuove sintesi, i nuovi profili, i nuovi paesaggi che caratterizzano il mondo contemporaneo dal punto di vista socioculturale: sintesi profili, e paesaggi del mondo che nascono appunto dall’incontro, oggi sempre più intenso di individui e gruppi con storie, memorie, conoscenze e identità diverse, spesso fondate su premesse esperienziali e concettuali molto distanti tra loro.

Sul piano empirico le culture sono sempre state “ibride”, almeno nel senso che ciò che costituisce il mondo della nostra esperienza condivisa, pratica e simbolica, è sempre frutto di incontri, di apporti e di mentalità differenti tra loro, di oblii e di ricordi che attingono a esperienze culturali diverse. Questi apporti, incontri, oblii che dipendono naturalmente, e in primo luogo, dal modo in cui le culture si combinano e si ricombinano in base a determinati rapporti di forza, hanno oggi assunto una frequenza e un’intensità che sono notevolmente superiori al passato, anche a un passato piuttosto recente.

Da un punto di vista empirico, di conseguenza, l’espressione “culture ibride” è un modo per esprimere ciò che accade nel mondo, una metafora dell’intensità e della frequenza che caratterizzano l’incontro fra culture nel mondo contemporaneo”.

La conclusione del pensiero del Fabietti è che gli antropologi si occupano le studiare le logiche complesse che compongono le culture, ne analizzano le strutture, i cambiamenti, le influenze, ne tracciano le genealogie e sono coloro che, considerata l’ecumene globale come habitat principale dell’Uomo contemporaneo, si pongono sui confini e le frontiere e guardano gli intrecci ed i passaggi di tratti e persone che caratterizzano la nostra epoca.

Intrecci e scambi che sono soltanto più veloci rispetto al passato nel quale, comunque, c’è sempre stato un “traffico culturale”  fatto di merci (come le spezie, le sete, etc.), idee e persone che si spostavano da una parte all’altra della superficie terrestre.

Per questi motivi, e per far emergere il potere delle retoriche politiche contemporanee, ci sembra utile ricordare la normalità, la banalità quasi, degli spostamenti come assolutamente tipici degli esseri umani.

Melissa Pignatelli

Fonte: Ugo Fabietti, Roberto Malighetti, Vincenzo Matera, Dal tribale al globale. Introduzione all’Antropologia, Bruno Mondadori Editore, Milano, 2000.

Immagine: una modella per CultroClothing.

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