Pubblicato il 1 Ottobre 2018

“Siamo tutti nella stessa barca”: il paradigma dell’incertezza

di Vincenzo Matera

L’incertezza è il non saper bene come agire, che fare, che direzione prendere, per il venir meno di punti di riferimento che hanno guidato, ma anche vincolato, le generazioni precedenti (e per il moltiplicarsi di riferimenti – desideri – effimeri, fragili, liquidi); l’incertezza esprime anche gli aspetti tipici dell’apertura, della creatività, dell’improvvisazione, della libertà di decidere appunto senza troppi vincoli e senza aprire conflitti troppo forti per esempio con i genitori, che sono stati invece il segno di un passaggio/scontro generazionale passato. Si inserisce qui anche una riflessione sull’immaginazione come risorsa culturale: la capacità/incapacità di progettare/pensare il futuro si caratterizza come una variabile dell’indeterminatezza crescente che si fa strada in un contesto sociale frammentato, appunto incerto.

Come appare evidente, la dimensione dell’incertezza è parte dell’esperienza umana, quali che siano i modi storici in cui questa si realizza; altrettanto ovvia è la considerazione della variabilità che la caratterizza, nel tempo e nello spazio; meno ovvio è invece il riconoscimento del carattere culturale dell’incertezza, del modo in cui ce la rappresentiamo, la sperimentiamo, la percepiamo. Intesa come precarietà dell’esistenza, per esempio, abbonda nella rappresentazione che Lévi-Strauss fa dei “suoi” Nambikwara, in pagine emblematiche dell’antropologia classica:

Attorno al fuoco, unica protezione contro il calare del freddo, dietro il fragile paravento di palme e rami frettolosamente piantati nel terreno dalla parte da cui si teme il vento o la pioggia; vicino alle gerle piene di poveri oggetti che costituiscono tutta una ricchezza terrestre; sdraiati sulla nuda terra che si estende tutt’intorno. Frequentata solo da altre bande egualmente ostili e timorose, le coppie, strettamente avvinte, si sentono davvero di sostegno reciproco, e di conforto, e di unico soccorso contro le difficoltà quotidiane e la malinconia sognatrice che, di tanto in tanto, invade l’anima dei Nambikwara. Il visitatore che, per la prima volta, si accampa nella boscaglia con gli Indiani, si sente preso da angoscia e da pietà dinanzi allo spettacolo di questa umanità così totalmente sprovveduta; schiacciata, pare, contro il suolo di una terra ostile, da un’implacabile cataclisma; nuda, rabbrividente presso fuochi vacillanti. Circola a tentoni fra i cespugli, nell’oscurità, evitando di calpestare una mano, un braccio, un torso, di cui si indovinano i caldi riflessi al chiarore dei fuochi. Ma questa miseria è animata da bisbigli e da risa. Le coppie si stringono come nella nostalgia di un’unità perduta; le carezze, tenere e candide insieme, non si interrompono al passaggio dell’estraneo. Si indovina in tutti una gentilezza immensa, una profonda tranquillità, un’ingenua e incantevole soddisfazione animale, e, emanante da tutto ciò, qualcosa come l’espressione più autentica e struggente della tenerezza umana.

L’incertezza, del resto, non è certo una condizione autonoma, un già dato dell’esperienza umana: è un prodotto sociale e culturale; dipende, ed emerge quindi, dalle relazioni sociali, dalle configurazioni culturali, che in certi casi creano incertezza. Parallelamente, relazioni sociali e configurazioni culturali possono anche ridurre l’incertezza, anzi, proprio questo è il loro effetto primario. L’incertezza, l’imprevedibilità, scaturiscono dal presente, e si proiettano nel futuro; informano di se stesse l’esperienza del tempo, gli orizzonti e la capacità progettuale: il fare programmi, il coltivare aspirazioni, lo sperare che qualcosa si realizzi o non si realizzi, l’augurarsi buona fortuna emergono allora come risorse culturali, che possono essere incrementate o schiacciate dalle condizioni sociali.

L’incertezza domina la vita degli abitanti dei “mondi magici”, di cui De Martino delinea la problematicità dell’esserci, un esserci “non deciso” e quindi a rischio di dissoluzione nel nulla. Comprendere il senso della vita di costoro non è possibile se non uscendo dal pregiudizio antimagico dominante nel nostro mondo, – un mondo o un insieme di mondi dove l’esserci era divenuto un “dato” quasi inossidabile, e molte altre società ne hanno fatto le spese – per riconoscere la funzione dei dispositivi magici (e religiosi) di consolidare l’esserci incerto. Si tratta di una funzione specificamente culturale, quella di preservare la presenza, il “bene culturale per eccellenza” senza il quale l’esistenza perde il carattere specificamente umano dell’esserci temporale, storico, e diviene semplice presenza, quella di un sasso, per intenderci.

Nella società contemporanea, in molti dei suoi luoghi, e in molti dei suoi abitanti, l’incertezza sembra affiorare in modo preponderante, come dominus incontrastato a volte, o anche come una forza imperscrutabile e inevitabile, che segna pesantemente l’esperienza.

È ovvio che l’incertezza regni sovrana nei periodi di guerra, allorché “si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”; nei periodi di trasformazione, quando un certo ordine del mondo viene meno senza che sia pronto un nuovo assetto, nei periodi di crisi. Di per sé macro processi sociali come i conflitti, le dominazioni di un gruppo su un altro, ma anche la depressione economica, l’instabilità dei mercati, la perdita del lavoro provocano un’incertezza, che si manifesta a caduta nella quotidianità delle persone. Di per sé, ancora, macro processi culturali come la disgregazione di valori collettivi, il frantumarsi di comuni orizzonti progettuali e identitari, l’erosione delle reti della solidarietà, alimentano l’incertezza, concorrono a creare contesti in cui la crisi è la normalità, e non più un’eccezione che prima o poi verrà risolta. È in questi casi che il paradigma dell’incertezza si fa contesto, inizia a far presa, a modellare modi di pensare e di essere nel mondo. Modi di pensare e di essere il cui tratto distintivo è trovare espedienti (o rimedi) contro la dissoluzione dell’ordine, della stabilità, di una possibile direzione che provoca una sorta di ansia da disorientamento; l’insieme è indice di una crisi di valori; crisi politica, crisi d’identità storica e culturale che fa saltare le radici di quel mondo che credeva aver conquistato la certezza. Come ha magistralmente spiegato Vittorio Lanternari (1960), i movimenti religiosi dei popoli oppressi che trovano nella “profezia” il sentiero rassicurante da percorrere per sfuggire alla crisi, sono reazioni politiche – che si avvalgono di un linguaggio religioso – di fronte al crollo delle certezze tradizionali, inedite modalità di produzione e di distribuzione di senso di appartenenza fra individui deprivati dei loro orizzonti esistenziali.

Vincenzo Matera 

Questo capitolo è il terzo di cinque capitoli dell’articolo completo che trovate qui: MATERA, Vincenzo. Etnografia dell’incertezza: l’incapacità di pensare il futuro come assenza (culturale). EtnoAntropologia, [S.l.], v. 5, n. 1, p. 7-20, lug. 2017. ISSN 2284-0176. Licenza: CC By.

I capitoli successivi verranno pubblicati ogni settimana per 5 settimane.

Il primo capitolo “Orientamento e disorientamento, l’appartenenza e l’incertezza nelle società contemporanee” è disponibile qui.

Il secondo capitolo “Ordine, direzione e stabilità nell’Età dell’Incertezza” è disponibile qui.

Il terzo capitolo “Il paradigma dell’incertezza” è disponibile qui.

Il quarto capitolo “Vivere insieme nella diversità: il tunnel dal quale manca il progetto politico per uscire” è disponibile qui.

Il quinto capitolo “L’ospitalità, un valore che sta scomparendo” è disponibile qui.

In fotografia: il manifesto realizzato dall’artista Marina Abramović per la cinquanetesima Barcolana che si svolgerà dal 5 al 14 ottobre 2018 a Trieste © Barcolana50.
Tutte le informazioni per la storica regata qui: Barcolana50.

Condividi l'articolo sui tuoi Social!

SOSTIENI




Ultimi articoli