Pubblicato il 15 Luglio 2023

La noia, l’attesa e l’ingiustizia nella storia di Berhane, un rifugiato eritreo in Uganda

di Barbara Palla

Berhane è un giovane rifugiato eritreo residente dal 2005 a Kampala, la capitale dell’Uganda. Come lui, tanti altri rifugiati sono arrivati in città dopo essersi sottratti all’insicurezza e alle politiche spesso soffocanti o violente di paesi come l’Etiopia, l’Eritrea, la Somalia, il Sudan, il Congo o il Kenya. Berhane –  la cui storia è raccontata da Luc Jourdan nell’articolo Sono l’uomo giusto nel posto e nel momento sbagliato. Storia di un rifugiato eritreo a Kampala (Uganda) – vorrebbe lasciare l’Uganda per costruirsi una vita altrove, fuori dal continente africano. Tuttavia, a causa di politiche migratorie restrittive e di tempi burocratici molto lunghi, è paradossalmente bloccato in un’attesa indefinita che ne limita sia la libertà di movimento che il processo di integrazione.

Il giovane eritreo è cresciuto tra Asmara e Addis Abeba, ha frequentato una scuola tedesca e alla fine degli studi ha vinto una borsa per vivere in Germania. Il governo eritreo non gli ha però concesso la possibilità di espatriare, come racconta lo stesso Berhane a Jourdan:

“Questi tedeschi erano venuti ad Asmara e il governo gli aveva dato un college che era stato costruito dagli italiani, avevano bisogno di quaranta studenti […]. Dopo quasi due anni quei tedeschi che insegnavano volevano portarci, sei studenti, in Germania per un master. Era un buon piano […]. Ci hanno dato un visto e quando stavamo per partire il governo ci ha bloccato. Perché? Non ho risposta. Volevano mettere i loro figli? Questo è quello che abbiamo sempre pensato, i ministri avevano anche dei figli, ma non erano qualificati per andare in Germania. Il governo ha bloccato tutto e ho iniziato a sentire qualcosa di male verso questa gente. Se mi blocchi senza alternativa…non mi devi bloccare! Se hai un’altra opzione posso accettare che mi blocchi, e rispetto la legge che fai contro di me, ma hanno solo bloccato. Sono andato dal ministro dell’educazione, gli ho parlato ma non mi ha dato risposta. Mi ha detto: «non lo so!». Avevamo paura, se non sai perché ti siedi lì a governare?! Ma eravamo sotto al legge “do or die” (fai o muori).”

Deluso dall’ingiustizia e stanco di vivere in un paese sempre più chiuso e militarizzato, Berhane  decide di lasciare l’Eritrea e raggiungere la sua famiglia in Canada. Nel 1998, poco dopo lo scoppio di una nuova guerra con l’Etiopia, fugge da Asmara.

Come tanti altri rifugiati, Berhane arriva a Khartoum dove chiede e ottiene il riconoscimento dello status di rifugiato. Si sposta poi a Nairobi prima di decidere di raggiungere la città di Kampala. Berhane sceglie di andare in Uganda per due motivi. In primo luogo, capisce che il percorso per raggiungere Kampala è meno pericoloso che tentare l’altra via intrapresa dagli eritrei, quella cioè che passa attraverso il deserto sudanese e libico prima di raggiungere l’Europa. In secondo luogo, sa che in Uganda il sistema di accoglienza è più pacifico: la polizia è meno violenta e corrotta del Kenya e la popolazione non è ostile alla presenza di residenti stranieri.

Il viaggio di Berhane da Asmara, fino Khartoum, poi Nairobi e infine Kampala

La vita a Kampala può essere piacevole in virtù del gradevole senso di comunità che si crea tra i rifugiati e per l’instancabile vita notturna che la anima. Ma per Berhane è solo un periodo transitorio prima di ottenere il visto per andare in Canada. Tuttavia, il rilascio dei visti prevede dei tempi molto lunghi e i più fortunati riescono a partire dopo tre anni dalla prima richiesta, mentre gli altri devono aspettare.

Nell’attesa Behrane, come tanti altri, si annoia, trascorre le sue giornate senza fare niente, seduto nei bar popolari del suo quartiere. L’inattività influisce sulla sua salute psicofisica: Berhane confessa infatti che nei periodi di maggiore sopraffazione dei sentimenti di frustrazione e noia è arrivato a pensare anche al suicidio.

In modo simile, anche il suo processo di integrazione nella società ugandese risente della noia e dell’inattività. A tal proposito Jourdan spiega che:

“In via definitiva la vita dei rifugiati eritrei a Kampala può essere descritta come una fase liminale, ovvero un momento di transizione fra tappe fondamentalmente diverse della propria storia personale. Per molti il rischio è di perdersi  in una situazione in cui non si è più quello che si era e non si è ancora quello che si vuole diventare. Il presente a Kampala non sembra appartenergli, ne sono coinvolti solo superficialmente: il cibo che mangiano è immancabilmente eritreo, e, nonostante alcuni vivano da anni in Uganda, quasi nessuno parla la lingua locale e solo pochi si sono fidanzati con donne ugandesi.[…]

Per molte persone l’intera vita si trasforma in un’attesa indefinita. Si trovano in sostanza paralizzati e ingabbiati in biopolitiche restrittive e securitarie che trasformano le loro esistenze in un percorso ad ostacoli, fatto di norme punitive e di una burocrazia violenta e grottesca: spesso non se ne esce fuori e si finisce in una condizione di sospensione senza fine.”

Dalla vicenda di Berhane emergono quindi le contraddizioni di alcune politiche migratorie. Ci si potrebbe chiedere quale sia il vantaggio di obbligare le persone a fermarsi in un paese in cui non vogliono rimanere, e, di conseguenza, affrontare i rischi e gli oneri di una mancata integrazione.

Sarebbe forse più utile ripensare le politiche migratorie, in Uganda come altrove, in un senso inclusivo cercando di favorire il coinvolgimento del capitale umano di passaggio.

Barbara Palla

Luc Jourdan, “Sono l’uomo giusto nel posto e nel momento sbagliato. Storia di un rifugiato Eritreo a Kampala (Uganda)”, Antropologia, n°14, 2012.

In fotografia: una veduta di Kampala, la capitale dell’Uganda

Articolo pubblicato per la prima volta nel 2018 sul LaRivistaCulturale.com

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