Pubblicato il 25 Maggio 2018

Architettura: come i luoghi influenzano l’abitare, un confronto tra il Libano e l’Italia

di Barbara Palla

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L’antropologia culturale si è spesso interrogata sui luoghi, le case e i modi in cui le persone abitano, relegando il ragionamento sul concetto stesso di “abitare” sullo sfondo delle analisi. Altre discipline come l’architettura, l’urbanistica e la sociologia nel tempo si sono affermate in questo campo e si sono guadagnate la capacità di influenzare le politiche abitative sopratutto nelle zone periferiche. L’analisi dal punto di vista dell’antropologia culturale, come sostiene Erika Lazzarino nel suo articolo Antropologia alla prova dell’abitare. La località come strumento di analisi culturale, offre una chiave interpretativa nuova, capace di rigenerare il corso sia degli studi che della progettazione urbana, soprattutto in un’epoca in cui i flussi globali di persone verso le città sono in crescita.

Per superare l’analisi delle modalità usati nell’occupare uno spazio fisico, Erika Lazzerino introduce il concetto di località ovvero “ciò che le persone fanno, ricordano e immaginano, per guadagnarsi ‘il posto giusto nel momento giusto’, o quantomeno per avvicinarsi il più possibile a quella congiuntura in cui si sentono a proprio agio”. In altre parole la località può essere pensata come una “bussola culturale” grazie alla quale le persone possono orientare i propri rapporti con il tempo e con lo spazio.

Per spiegare come agisce questa relazione dell’abitare con lo spazio e il tempo Lazzerino porta due casi studio diversi: da un lato l’esperienza dei profughi palestinesi nei campi in Libano e dall’altra l’analisi dei modelli abitativi presenti nelle periferie di Milano.

Nel primo caso la relazione tra lo spazio e il tempo dipende dalla diaspora, dalla condizione di profugo e di rifugiato in cui si trovano i palestinesi. Essi sono infatti divisi tra un passato in cui le loro abitazioni erano percepite come il vero ambiente di vita e un presente in cui è avvenuto uno sradicamento abitativo a cui non è ancora corrisposto un insediamento effettivo. Si instaura così una relazione di traslazione tra identità e memoria, tra passato e presente segnata dall’abbandono della terra abitata, che rimane come un’assenza presente, e il mancato insediamento in una nuova terra, che è invece una presenza assente, in un continuo ricollocamento della divergenza spaziale e temporale.

Nel secondo caso, a Milano, l’analisi si interroga sulla produzione di località, non più per traslazione, ma per prossimità ovvero sulla relazione tra spazio e tempo attivata da un’esperienza di corrispondenza e di convergenza. In merito alla località per prossimità Lazzerino formula tre ipotesi di osservazione.

La prima vede la località come anticipazione di una comunità immaginata come “buona e controllata”, ovvero l’abitare è il mero atto fisico di occupare uno spazio già costruito. Questa è in realtà la prospettiva dei decisori politici e urbanistici che disegnano e costruiscono edifici, case, abitazioni da riempire con le persone. Lo spazio nasce prima del tempo, lo spazio è predeterminato e non dipende dalle dinamiche sociali o dalla costruzione dell’identità.

La seconda ipotesi prevede invece la località come costruzione di una rappresentazione sociale sovra-locale, ovvero la prospettiva occidentale in cui persona e casa si combinano nella costruzione di un’identità, la casa non è il luogo in cui si abita ma il modo in cui le persone si rappresentano reciprocamente.

Nella terza e ultima, la località è vista come l’attivazione nella quotidianità di forme improvvisate di creatività culturale. L’analisi antropologica si rivolge all’ontologia della soggettività occidentale implicita nell’abitare. In questo caso si assiste ad un’effettiva de-naturalizzazione del modo culturalmente appreso in Occidente di stare al mondo, che risulta in una completa separazione tra lo spazio e il tempo, tra la persona e la casa.

Riassumendo, la bussola culturale della località per traslazione indica che “là dove si è in diaspora là si abitare”, nel caso invece della località per prossimità rivela invece che “là dove si è la si può abitare”.

Dunque la località permette all’antropologia culturale di riscattarsi dal mero compito di studiare i significati che le persone attribuiscono agli spazi della città e al contrario di introdurre una nuova visione nei processi di rigenerazione urbana così come negli ambienti che li governano.

A fronte di una crescita generale delle comunità diasporiche, e di una crescita dei flussi globali di persone, l’abitare visto dal punto di vista dell’antropologia culturale porta “una visione che possiede il merito di far incontrare i possibili orientamenti al mondo con il mondo possibile in cui orientarsi”.

Barbara Palla

Articolo originale di Erika Lazzarino, L’antropologia alla prova dell’abitare. La località come strumento di analisi culturale, Tracce Urbane, vol.1, 2017, Roma.

Articolo pubblicato in occasione della Biennale Architettura 2018 a Venezia aperta dal 26 maggio al 25 novembre  2018. Per maggiori informazioni visitare il sito della Biennale di Venezia, qui.

Di 25 Maggio 2018Arte, Cultura

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