Pubblicato il 7 Marzo 2021

Iraq, voci da Mosul: vivere sotto il califfato

di Michael Campeggi

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Il 10 giugno 2014 il califfato occupa Mosul, Iraq. Tre giorni dopo, viene promulga la cosiddetta “Costituzione di Medina”, un documento di sedici articoli che illustra la futura amministrazione della città. Per circa tre anni, fino al luglio 2017, quando la città fu riconquistata dopo un assedio di nove mesi da una coalizione di forze irachene-curde membri del Combined Joint Task Force-Inherent Resolve, gli uomini dell’auto proclamato khalifa Al-Baghdadi hanno governato la città tramite una struttura politico-sociale in linea con l’ideologia del ritorno all’età del Califfato, basata su un’applicazione integralista della Sharia unita ad una concezione geopolitica volta ad eliminare il confine tra Iraq e Siria. Ma cosa ha significato concretamente vivere in una città governata dal califatto? Quali erano le sfide quotidiane da affrontare? Quale la reale percezione che le famiglie di Mosul avevano degli uomini di Al-Baghdadi e, soprattutto, quali traumi socioeconomici hanno dovuto sopportare (e sopportano!) i cittadini iracheni a causa di un conflitto così logorante?
Laura Quadarella Sanfelice di Monteforte in Vivere a Mosul con l’Islamic State: Efficienza e Brutalità del Califfato (Ugo Mursia Editore, 2019) e Francesca Mannocchi in Porti Ciascuno la sua colpa: Cronache dalle guerre dei nostri tempi (Laterza, 2019) offrono ciò che è troppo spesso negletto dai media occidentali: le testimonianze dirette degli attori locali e delle comunità coinvolte, raccolte grazie ad un’intensa, rischiosa, ma doverosa attività sul campo. Di recente pubblicazione, questi due lavori forniscono infatti una visione dall’interno della quotidianità di una Mosul controllata da ISIS, offrendo riflessioni che contrastano con le narrative fornite ogni giorno dai mezzi di comunicazione globali.

Quadarella Sanfelice di Monteforte – giurista, geo-politologa e analista di intelligence- espone l’organizzazione di ISIS prendendone in esame la struttura economica, i sistemi scolastici, sanitari, giudiziari e di sicurezza, ma anche gli aspetti sociali quali la sessualità, la gestione dei cosiddetti foreign fighters, il rapporto con le minoranze etniche e religiose, nonché la distruzione di luoghi di cultura e siti archeologici (Nebi Yunus e l’antica Nineveh, tra gli altri). Grazie alle testimonianze riportate, tra le quali spicca quella di “Mosul Eye” (coraggioso cittadino di Mosul che ha rischiato la sua vita pur di documentare e rendere nota la gestione ISIS di Mosul, ora in esilio in Europa), l’autrice argomenta come inizialmente ISIS abbia ricostruito strade, fornito rete elettrica e messo fine alla corruzione endemica alla società irachena in seguito all’invasione del 2003, di fatto migliorando le condizioni di vita dei cittadini di Mosul e ricevendo apprezzamenti dai sunniti locali. Le politiche si radicalizzeranno in seguito, quando ISIS riformerà le scuole e i programmi di studio, imporrà l’obbligo di bigottismo religioso (preghiera, zakat ecc.), diffonderà la propaganda jihadista e realizzerà esecuzioni pubbliche a mo’ di avvertimento per i trasgressori, insieme a persecuzioni di sciiti, cristiani e minoranze (complesso è il caso delle donne yazide che, come testimoniano alcuni abitanti di Mosul, sembra essere stato distorto dai media occidentali, Quadarella Sanfelice di Monteforte 2019, p. 107).

Se, da una parte, le voci degli attori locali permettono di analizzare il funzionamento dell’amministrazione ISIS a Mosul, dall’altra offrono a Francesca Mannocchi in Porti ciascuno la sua colpa l’opportunità di ragionare sugli effetti antropologici della guerra nella sua dimensione di tragedia umana. Mannocchi – reporter freelance e regista – narra del dolore dei lutti familiari (vari i casi raccolti di figli che ripudiano la famiglia per seguire la via del jihad estremo, di padri e mariti uccisi e che lasciano vedove e bambini) di fame, di terrore, ma soprattutto di stigma sociale. Stigma certamente presente a Mosul durante il controllo ISIS, ma esasperato dopo la “liberazione” quando l’esercito iracheno avviò una vera e propria “caccia alle streghe” per stanare i collaboratori del califfato, in cui ogni cittadino rimasto a Mosul veniva automaticamente bollato come terrorista o torturato dai servizi segreti iracheni. Stigma presente, inoltre, nel campo di Jaddah dove convivono migliaia profughi di guerra con vedove e figli dei miliziani ISIS accusati di essere direttamente responsabili per la distruzione di migliaia di vite. Per i bambini, la colpa è quella di essere semplicemente nati dai genitori sbagliati, di essere figli ISIS. Sono proprio i bambini, i “semi” del califfato, che necessitano più di altri di educazione e re-inserimento nella società irachena, opzione che tuttavia sembra difficile data la scarsezza dei mezzi del paese.

Il giorno dopo la liberazione di Mosul nel 2017 si è tornati a domandarsi come agire in un tessuto sociale già fortemente lacerato sin dalla rimozione di Saddam Hussein. La miope politica post 2003 ha esasperato inefficienza governativa, corruzione e radicalizzazione etnico-religiosa, fattori che hanno aiutato ISIS a trovare terreno fertile tra molte fazioni più conservatrici della regione di Mosul e non solo. Dopo migliaia di morti e la distruzione della vecchia città di Mosul, la “sconfitta” dell’ISIS appare solamente come il preambolo delle operazioni da intraprendere per ricostruire una società in ginocchio. Che sia l’ora di iniziare ad ascoltare direttamente gli attori coinvolti e di impegnarsi concretamente con programmi di ricostruzione efficaci? È ormai chiaro, concordano Quadarella Safelice di Monteforte e Mannocchi, che bisogna agire al più presto e con lungimiranza, pena il ricostituirsi di condizioni favorevoli alla nascita di altre forme di estremismo.

Abbiamo ripudiato le parole che la narrazione dell’Isis ci ha messo davanti, riducendola a conseguenza di cause economiche, materiali, semplificando persino il discorso religioso. Abbiamo svilito il rigore che le parole di Isis ci hanno imposto, nei video, nelle riviste, nelle rivendicazioni; in nome della lotta al terrorismo, o di una paura che non abbiamo saputo né nominare né gestire. L’Isis ci ha messo di fronte l’angoscia della fine, di una fine inaspettata, improvvisa e violentissima, sotto forma di un esercito di giovani che avevano e hanno dalla loro qualcosa che il nostro universo valoriale non può proporre: un’idea di futuro.

Per questo credo che abbiamo deciso di non vedere, di non voler guardare negli occhi chi ci avrebbe messo di fronte alla più cruda delle verità, cioè che questi ragazzi ci somigliano più di quello che la nostra coscienza è in grado di accettare. Perché hanno cercato e trovato nel Califfato una ragione superiore allo smarrimento. Noi invece abbiamo deciso che non avremmo guardato quei ragazzi e ragazzini, così come non mostriamo e non guardiamo e non vogliamo vedere i video delle esecuzioni. Troppo crudo, troppo violento, troppo veloce, troppo finto, troppo artefatto, troppo pericoloso. Così si diffonde la propaganda. O forse troppo vicino a noi, alle nostre abitudini figurative, filmiche, narrative?

Lo smarrimento di questi ragazzi in cerca di risposte ci è troppo familiare per poterlo sopportare senza esserne scossi. La prossimità del loro smarrimento l’abbiamo trasformata in censura (Mannocchi 2019, 144-5).

Michael Campeggi

Francesca Mannocchi, 2019, Porti ciascuno la sua colpa: Cronache dalle guerre dei nostri tempi. Laterza, 230 pp.

Laura Quadarella Sanfelice di Monteforte, 2019, Vivere a Mosul con l’Islamic State: Efficienza e brutalità del Califfato. Ugo Mursia Editore, 236 pp.

 

Immagine: Niniveh, poco lontano da Mosul, Iraq, foto UNESCO del 2017. Niniveh è stata scavata con lo scopo di rivendere materiali archeologico sul mercato. Questo, secondo l’UNESCO, ha alterato il sito e distrutto tracce che avrebbero consentito di fornire dati  scientifici sulla storia antica della regione.

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