Pubblicato il 16 Novembre 2020

Sul valore dell’agricoltura nella letteratura romana

di Gennaro Tedesco

Per avvicinare l’intreccio tra politica agraria, letteratura e Impero Romano, si ritiene opportuno partire da una declamazione di Temistio scritta a Costantinopoli prima del 355 dopo Cristo.

Probabilmente il problema dell’abbandono dei campi aveva sempre interessato e sollecitato una mente così attenta e ricettiva come quella del retore, ma l’occasione di una composizione su questo argomento gli è stata offerta  dalla circostanza dell’assunzione al trono di Costanzo II  e dalla sua politica agraria.

Costanzo II non trovò di meglio per risolvere i problemi finanziari dell’impero che accrescere il carico fiscale sulle proprietà fondiarie. Egli accrebbe il volume delle spese improduttive governative, continuando una rincorsa senza fine tra improduttività della spesa pubblica e aumento dell’imposizione fiscale a danno del maggior settore produttivo del mondo tardo-antico, quello agricolo.

Del resto questa era una tendenza precedente all’imperatore Costanzo II  e al quarto secolo. Già dal III secolo e da Diocleziano questa tendenza era in atto. I donativi alle truppe, agli amici, ai clienti, ai nemici dell’imperatore continuavano ad accrescersi paurosamente. La militarizzazione dell’impero man mano che la marea barbarica montava procedeva inesorabile, comportando l’aumento delle spese statali.

Nel IV secolo si aggravava anche il processo di centralizzazione e quindi di burocratizzazione dell’impero. Centralismo e burocrazia diventano due aspetti di uno stesso problema. Il sistema delle autonomie amministrative viene scardinato definitivamente.  L’inflazione galoppava a causa delle speculazioni sulla moneta , per lo sperpero delle risorse finanziarie e per la probabile costante diminuzione della produzione e della produttività agricola.

Era evidente infatti che il costo di tale politica imperiale ricadeva tutto sulla fonte maggiore di reddito che era l’agricoltura. A peggiorare la situazione, c’era poi l’obbligo della leva militare che danneggiava e angustiava i contadini.

In queste condizioni era naturale che cominciasse a sorgere una forte disaffezione verso il lavoro dei campi. E si può credere a quelle fonti che affermano che molti contadini e cittadini dell’impero erano più contenti dei barbari che dei propri governanti che, tra l’altro, nell’esazione delle tasse brillavano per corruzione e rapacità.

L’imperatore Giuliano tentò di fermare la corrente, dando un taglio agli splendori  ostentati e dispendiosi della corte, cercò di ridurre il carico fiscale e riproporre al centro del sistema amministrativo le città.   Il tipo di politica che Temistio avrebbe desiderato dai suoi imperatori è forse reperibile nel suo elogio di Valente confermato da Ammiano Marcellino. Temistio “in un panegirico pronunciato nel cinquantesimo compleanno dell’imperatore cita alcuni dati utili. Negli ultimi quarant’anni prima dell’assunzione al trono di Valente l’indizione annuale era costantemente aumentata. Valente non impose nessun aumento nei primi tre anni e al IV ridusse l’indizione a metà; tenendo presente i risultati di Giuliano in Gallia questa riduzione non è incredibile, anche se  è attestata soltanto da un panegirico”.

Valente, come dice Temistio, era stato un semplice padre di famiglia prima di diventare imperatore  e conosceva  il valore del denaro. Era parsimonioso nel concedere donativi, ma questo, si affretta a spiegare Temistio, non era meschineria ma vera economia: doni grandiosi avrebbero reso necessarie tasse più alte. Ammiano attesta pure che Valente era rigorosamente onesto riguardo alle petizioni per le proprietà caduca e vacantia, concedendo ai detentori ampia facoltà  di dimostrare infondate le pretese. Per di più, quando la pretesa era provata, egli divideva la proprietà tra il presentatore della petizione e tre o quattro altre  persone che non avevano reclamato: questa abitudine deve aver scoraggiato la petitio, riducendo grandemente il profitto”. 

Con Teodosio I il processo di disgregazione dell’impero si amplia e si approfondisce, si notano nell’impero i primi segni di un medioevo incipiente: la militarizzazione antigotica si accresce così come aumenta l’improduttività della spesa pubblica , tutti fattori che contribuiscono in modo  determinante all’ulteriore degradazione delle attività  agricole.  A parte il riferimento d’obbligo ad Omero , Temistio sembra preferire in questa sua  declamazione esclusivamente scrittori che hanno mostrato interessi realistici verso l’agricoltura (lo stesso Esiodo ad esempio incarna la tendenza “produttivistica del lavoro dei campi contro quella di Omero che potrebbe essere definita “edonistica”, aristocratica) a  dimostrazione del valore concreto e politico della declamazione del retore bizantino.

Infatti Temistio sembra aver dimenticato volutamente il versante più poetico, più “bucolico” della letteratura arcadica. Naturalmente  va detto che un Virgilio, per quanto bucolico, era anche in parte produttore di ideologia. Il versante bucolico era rappresentato da un Teocrito, Mosco, Bione .

Anche Libanio, retore contemporaneo e amico di Temistio, che agisce a Beirut, dimostra lo stesso interesse verso l’agricoltura, componendo un encomio in suo onore: da tutto questo appare evidente l’importanza che in questo periodo si dava al problema della produzione agricola dell’impero.

Nella declamazione agricoltura e virtù sono in stretto rapporto. L’agricoltura invita all’esercizio della semplicità. In questa presa di posizione si avverte un notevole platonismo e aristotelismo  molto personale, ma non il moralismo  nel quale cade invece lo storico Ammiano Marcellino che denuncia le frivolezze della classe dirigente dell’epoca senza analizzare a fondo i problemi e tanto meno proporre alcune soluzioni, analisi e soluzioni, (più analisi che soluzioni ) che, invece, Temistio offre abbondantemente.

In Ammiano Marcellino scorgiamo l’intellettuale romano legato ai limiti negativi del pensiero classico che riesce a ragionare solo in termini di razionalità-naturalità che escludono, ad esempio, storicamente e razionalmente le masse che incutevano terrore a un Livio, i barbari che rappresentano tutto ciò che negativamente e classicamente è “flusso”. A questo proposito noi siamo a conoscenza della disponibilità di Temistio nei confronti dei barbari. 

Temistio, poi, riprende un tema che gli è molto caro: Omero canta le guerre e le battaglie, ma le guerre e le battaglie non producono nulla, sono anzi devastatrici soprattutto dell’agricoltura, base indispensabile di ogni società.

Il lavoro agricolo, oltre che invitare alla semplicità, secondo Temistio, provvede a mitigare ogni creatura; semplicità quindi che non significa rozzezza, al contrario è sana civiltà, che contrasta con la società del I secolo che spingeva sempre più verso la corruzione.

Per Temistio l’agricoltura è una texne, un’arte, un esercizio che classicamente (pitagoricamente) è anche una arete (virtù): i due termini  quasi si assimilano . Da Temistio all’agricoltura è imposto un valore “eudaimonico” quasi nel senso moderno e “liberale” di ricerca ampiamente soddisfatta di felicità proprio nel momento in cui essa veniva invece “massacrata” dal governo imperiale.

I Celti,  gli Sciti citati da Temistio non sono più barbari, ma selvaggi e rozzi perché non praticano l’agricoltura che, invece, è il fondamento di ogni società, meglio di ogni civiltà. Temistio comprende fino in fondo l’essenzialità produttiva dell’agricoltura per la sua comunità storicamente determinata.

E’ notevole osservare che il nostro autore pone a  base della civiltà una attività materiale: il lavoro agricolo da cui fa dipendere ogni manifestazione umana. E’ l’agricoltura che consente di dedicarsi alla sapienza.

“Quelli che l’ozio volge dal lavoro verso l’ingiustizia, gli uomini della città e se mai qualcun altro lontano dall’agricoltura praticano la delazione e l’ingiustizia, invece l’agricoltore è colui che sa un solo bene semplice e nobile e questo ricava dalla terra collaborando con le stagioni, convinto, invece, che l’affaccendarsi intrigante sia invece l’inizio di ingiustizia e guardandosene da molto tempo”.

Quindi per Temistio è dall’abbandono della  campagna, dalle città che proviene l’ingiustizia, la guerra. La ricchezza di una comunità deriva essenzialmente dal lavoro dei campi. La conclusione di Temistio è tanto ovvia e chiara quanto penetrante e non abbisogna di commenti. Essa è tanto pienamente retorica quanto pienamente storica , inserita nel contesto economico-sociale del IV secolo.

Proprio dall’insistenza con cui tratta il problema agricolo ci accorgiamo quanto fosse deludente la situazione produttiva di quello che oggi è definito il settore primario. Secondo Perelman, è proprio da tale insistenza retorica che si può ricavare un quadro negativo della società  del retore e il disinteresse governativo verso i problemi agricoli che, invece, il retore, investito dell’autorità informale di portavoce dell’opinione pubblica fa presente ai suoi sordi imperatori.

“Tutti gli altri mestieri, infatti, hanno bisogno di rivolgersi all’agricoltura, e non solo i mestieri, ma anche gli studi; e coloro che detengono cariche e scettri fondano sull’agricoltura il regno e la carica, lo studio e il mestiere: l’agricoltura, invece, con quello che a lei è superfluo provvede agli altri. Dunque, il re non può prendere alcuna iniziativa, anche se si vanta di discendere dagli Achemenidi, dagli Eraclidi e da qualche altra famiglia, se non dà più importanza agli approvvigionamenti che alle armi. Chiunque, pittore o scultore, mercante e navigatore (come fare un elenco completo ?), non vi è chi non abbia bisogno dell’agricoltura. E quando c’è ed elargisce la sua ricchezza, prospera il lavoro di ognuno e l’operosità è indirizzata a buon fine ; se, invece, i suoi prodotti vengono a mancare, non rimane nulla per vivere.”   

Gennaro Tedesco

Bibliografia

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