Pubblicato il 24 Febbraio 2021

Come ci siamo abituati a sopportare i fallimenti

di Melissa Pignatelli

Arjun Appaduraj in Fallimento (Raffaello Cortina, 2020) esamina i flussi paralleli del capitale e dell’informazione per cercare di abbozzare una teoria del fallimento di routine. L’idea è suggestiva e nel saggio, l’antropologo della globalizzazione di origine indiane con Neta Alexander mettono a confronto la Silicon Valley con Wall Street evidenziando (con un complesso ed articolato ragionamento scientifico) come i meccanismi finanziari incidano sul consumatore finale abituandolo a piccole frustrazioni, insuccessi, fallimenti, ripetuti e reiterati che finiscono per coinvolgerlo completamente in un mondo dove l’insucesso è pane quotidiano.

Secondo Appaduraj e Alexander, il mondo della Silicon Valley è il mondo dell’innovazione, del design, delle app, dei big data, di progetti globali che usano le tendenze per invadere il pianeta mentre Wall Street  invece è il mondo delle banche d’investimento, dei fondi speculativi, della compravendita di prodotti derivati, dell’analisi finanziaria e del debito come forma di capitalizzazione. Se Wall Street vive di prodotti derivati nelle loro varie declinazioni – tutte incentrate sul valore futuro di merci e società, per definizione incerto ma anche di forme più arcaiche come le azioni. Senonché oggi il primo aspetto prevale sul secondo con un distacco abissale.

Appaduraj e Alexander evidenziano come i meccanismi finanziari che sottostanno alla quotidianità delle operazioni finanziarie includono anche il consumatore finale che però, quando le cose non vanno come gli è stato prospettato, viene invitato a “reinquadrare il fallimento come un inevitabile prodotto della propria ingenuità o della propria scarsa preparazione, dell’inettitudine che non gli ha consentito di scegliere il prodotto giusto o dell’incapacità di leggere in modo corretto il proprio livello di tolleranza al rischio e la volatilità che per definizione inerisce ai mercati finanziari”.

L’analogia con i media digitali è nella “tecno-disfunzione” ovvero quando si guastano i dispositivi, non si connettono o presentano altri disservizi. L’associazione è semplice: l’utente finale pensa che sia un disturbo temporaneo, o che lui si sia dimenticato qualcosa, non ne sappia abbastanza così uno shutdown (es. quando un sito è giù) diventa  un semplice e spiacevole contrattempo.

In questo modo il cittadino viene inserito in un meccanismo di esposizione al rischio e di uso della tecnologia che non comprende fino in fondo ma che serve per lubrificare i complessi ingranaggi dell’industria finanziaria e del progresso tecnologico, in ambedue gli ambiti le operazioni sono probabilmente destinate a fallire.

Infatti, i contrattempi tecnologici vengono inquadrati come quelli che contraddistinguono le operazioni finanziarie: “effimeri contrattempi di natura puramente tecnica”. L’amnesia infrastrutturale che si crea così è quella sulla quale si reggono, concludono Appaduraj e Alexander, le industrie finanziarie ed i servizi digitali che contano sulla poca memoria dei consumatori, che accettano così ulteriori disguidi.

La perdita, l’insuccesso, lo sfruttamento, l’insoddisfazione, la frustrazione son così costantemente inquadrate e reinquadrate come fasi di passaggio, di breve durata, o comunque in maniera tale che non si possano mai tradurre nell’abbandono del medium.

Perché il medium oggi è l’unica certezza del messaggio, e il successo del medium è l’unico paradigma possibile della nostra società.

Melissa Pignatelli

Arjun Appaduraj e Neta Alexander, Fallimento, Raffaello Cortina, 2020.

Immagine: Silvia Giambrone, Mirror, 2018, scultura in ottone, resina, cera, acacia spinosa, Collezione privata.

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