Pubblicato il 27 Febbraio 2021

Il tempo e gli altri: la storia del Congo è parte del nostro presente

di Melissa Pignatelli

La storia del Congo, oggi Repubblica Democratica del Congo con Kinshasa capitale, una volta si chiamava Zaire (1971-1997) ed era governata da Mobutu, che aveva preso il potere con un colpo di stato nel 1965. Indipendente dal 1960 con Patrick Lumumba, il paese era conosciuto in occidente come “Congo Belga”, uno degli stati più brutalizzati dalla storia coloniale, una storia di sfruttamento senza limiti iniziato alla fine dell’Ottocento in nome dell’estrazione del caucciù. Perché questo fu possibile? Perché secondo Johannes Fabian, antropologo che fece ricerca a Kinshasa, gli occidentali pensavano che il paese non avesse una storia: il tempo e i congolesi vivevano un’epoca che non era contemporanea a chi li aveva avvicinati.

Se il presente non è presente, la contemporaneità non è riconosciuta. Questo è il punto di Fabian in Il tempo e gli altri (Meltemi, 2021) che rileggiamo in anteprima, qui anche alla luce dei recenti fatti di cronaca accaduti in Congo. Il lavoro teorico di Fabian, una pietra miliare della ricerca antropologica, ha rimesso nello stesso tempo di chi fa ricerca e il “selvaggio”, il “primitivo” eliminando una pericolosa diacronia quella appunto che forse ha permesso a varie colonizzazioni di esprimersi in maniera assolutamente brutale e gratuita.

La riflessione di Fabian nasce appunto in Congo, Zaire all’epoca in cui lui stesso fa ricerca ed è raccontata a quattro mani con Tshibumba Kanda Matulu. L’uomo con cui Fabian fa amicizia a Kinshasa accetta di dipingere l’intera storia del Congo su commissione del ricercatore e in Remembering the present tutte le tele dell’artista fanno parte della narrazione scientifica. Il libro, scritto come un lungo dialogo, rimette così il tempo e l’altro nella stessa contemporaneità e sullo stesso piano di chi scrive “per lavoro”.

Per ignoranza, per fretta e mancanza di umiltà, molti occidentali non seppero riconoscere come degne della storia quello che loro stessi chiamavano storia le abitudini, le pratiche locali di un’antichissima organizzazione sociale tribale, che non conosceva le barriere degli stati moderni e le sue tiranniche pratiche burocratiche ma basava la sua struttura su un rapporto fluido con il territorio e le sue risorse generosissime.

Melissa Pignatelli

Johannes Fabian, Il tempo e gli altri, Meltemi, 2021, in uscita in libreria.

Johannes Fabian, Remembering the present,University of California Press, 1996


Prima di Mobutu, il territorio corrispondente all’odierna Repubblica Democratica del Congo (il terzo paese più grande d’Africa) era un possedimento personale del re Leopoldo II del Belgio e si chiamava “Stato Libero del Congo”. Il sovrano cedette poi il suo possedimento personale allo stato belga il cui dominio fu messo in discussione da Patrick Lumumba, leader dell’indipendenza del paese e primo Primo Ministro della Repubblica del Congo. Le rivalità interne, il sostegno delle potenze straniere, la rivalità USA-URSS aiutarono l’ascesa del colonnello Mobutu che eliminò il suo predecessore e rinominò il paese “Zaire”, riprendendo la parola Nzeri (fiume) con la quale era chiamato il fiume Congo in un dialetto locale.

La storia della colonizzazione del Congo è un esempio inquietante della “politica dell’oblio”. Nell’Agosto del 1908, per otto giorni consecutivi, Leopoldo II bruciò la maggior parte degli archivi della sua colonia personale, prima di assegnarla ufficialmente al Belgio. “Regalerò ai belgi il mio Congo, ma non avranno diritto a sapere ciò che vi ho fatto”, disse. E oltre agli archivi ridotti in cenere, ridusse drasticamente al silenzio i testimoni diretti. Fu così che una parte importante della storia della dominazione di Leopoldo II sul Congo e di coloro che vi si opposero è “sparita” dalla memoria degli europei, più rapidamente e più completamente del ricordo degli altri stermini di massa che hanno accompagnato la colonizzazione dell’Africa. Non si trova alcun cenno del regime predatorio e brutale instaurato da Leopoldo II nelle terre del bacino del Congo nelle enciclopedie né negli atlanti storici pubblicati nel Novecento.

Tra il 1880 e il 1910 il massacro perpetrato da Leopoldo II in Congo fu sanguinosissimo, con milioni di vittime che hanno tragicamente pagato a carissimo prezzo la dominazione coloniale: gli abitanti del Congo su ridussero a circa 10 milioni rispetto a una popolazione stimata, prima del 1880, a 20-25milioni di persone. Queste le cause che hanno concorso a dare una tale ampiezza alle perdite umane:

– l’assassinio: l’elenco dei massacri conosciuti e documentati è interminabile;
– la carestia, lo spossamento, l’esposizione agli agenti atmosferici;
milioni di donne, bambini, anziani morirono dopo essere stati presi in ostaggio;
le malattie (in particolare il vaiolo e la malattia del sonno, che ha causato 500mila morti soltanto nel 1907);
-la caduta del tasso di natalità (un missionario giunto in Congo nel 1910 fu stupito dall’assenza quasi totale di bambini tra i 7 e i 14 anni – nati cioè tra il 1896 e il 1903, periodo durante il quale fu al suo apice la campagna di produzione del caucciù).

Nel 1919 una commissione ufficiale belga concluse che nell’epoca in cui Stanley aveva iniziato a mettere le basi dello Stato di Leopoldo II, la popolazione del territorio si era ridotta della metà. La stessa stima è di Jan Vansina, dell’Università del Wisconsin, il maggiore etnologo attualmente specializzato nello studio dei popoli del bacino del Congo: per quest’ultimo la popolazione del Congo si è ridotta, tra il 1880 e il 1920, almeno alla metà.

Fu in particolare un nero americano, veterano della guerra di Secessione, George Washington Williams, a “scoprire” l’entità del martirio inflitto ai congolesi, grazie a numerose testimonianze. Williams partì per il Congo nel 1890 e scoprì quella che chiamerà “la Siberia del continente africano”, una terra in cui il lavoro forzato e le punizioni corporali erano all’ordine del giorno. Scrisse una lettera aperta a Leopoldo II in cui manifestava “disincanto” e ”assoluta demoralizzazione”: denunciò tra l’altro il ruolo di Stanley, un vero e proprio tiranno. Rilevò che l’installazione di basi militari lungo il fiume Congo aveva provocato una crudele ondata di morti e distruzioni.

Inoltre, l’affermazione di Leopoldo secondo cui il suo nuovo Stato aveva assicurato al Congo servizi pubblici efficaci era un’impostura: non vi erano né scuole né ospedali, ma solo qualche capanna “neppur degna di ospitare un cavallo”. Williams  indirizzò poi un rapporto particolareggiato al presidente degli Stati Uniti in cui denunciava l’evidenza: lo Stato indipendente del Congo era teatro di feroci crimini contro l’umanità.

Tra coloro che in seguito contribuirono a rompere il silenzio sulle condizioni dei congolesi vi è poi Georges Edmond Morel, che espose alcune conclusioni : il Congo era sottomesso a un regime implacabile di lavoro forzato dal quale il re e i suoi associati ricavavano tutti i benefici. “Mi sono imbattuto in  una società di assassini capitanati da un re”, scrisse tra l’altro. Morel si congedò dal proprio lavoro di agente di una compagnia marittima per dedicarsi interamente alla ricerca e alla scrittura (libri, discorsi, articoli, pamphlets), determinato a lottare contro “i nuovi negrieri” e a fare del suo meglio per rivelare e distruggere quella che era un’infamia legalizzata, accompagnata da un’enorme distruzione di vite umane.

Le denunce di Morel incoraggiarono l’opposizione a Leopoldo II. I missionari, che erano stati per lungo tempo testimoni impotenti, trovarono in lui un interlocutore pronto a pubblicare le loro testimonianze. Essi sono all’origine di terribili denunce: soldati che tagliano la mano di un uomo; massacri perpetrati per aumentare la raccolta mensile del caucciù; villaggi incendiati, ostaggi affamati.

Dopo l’azione di Morel, le critiche a Leopoldo II si moltiplicarono: in particolare furono molto efficaci e densi di testimonianze i rapporti e gli scritti dell’irlandese Roger Casement e di William Sheppard, missionario in Congo. Recentemente, uno scrittore americano ha pubblicato uno studio, tradotto in francese con il titolo Les Fantômes du roi Léopold. Un holocauste oublié, in cui ricostruisce pazientemente gli avvenimenti, puntando il dito accusatore sul sistema coloniale e sulle tare di questa “macchina creata per la distruzione di popoli”.

“In realtà, nella maggioranza dei casi, l’indigeno deve compiere ogni due settimane un viaggio di un giorno o anche più per raggiungere nella foresta un luogo con una quantità sufficiente di alberi della gomma. Qui conduce una misera esistenza. Deve costruirsi un riparo temporaneo che ovviamente non può sostituire la sua capanna; non ha il suo cibo abituale […], è esposto alle intemperie del clima tropicale e agli attacchi delle bestie feroci. Deve poi portare il prodotto raccolto all’agenzia dell’amministrazione (o della compagnia); solo allora può tornare al suo villaggio, dove rimane appena due o tre giorni prima che gli venga assegnato un nuovo compito. Di conseguenza […] la maggior parte del suo tempo è occupata nella raccolta del caucciù.”

Ogni villaggio doveva poi consegnare all’amministrazione 5 pecore o maiali o 50 galline, 60 chili di caucciù, 125 carichi di manioca, 15 kg di granturco o di arachidi e 15 kg di patate dolci. L’intero villaggio doveva lavorare un giorno su quattro alle opere pubbliche. L’adempimento degli obblighi veniva assicurato da guardie africane reclutate in altre regioni oppure da agenti prezzolati del villaggio stesso. Con l’incoraggiamento dell’amministrazione, queste guardie e agenti perpetravano atti di inaudita ferocia: portavano via le donne, i beni e al minimo segno di resistenza mutilavano i malcapitati o li uccidevano.

Spesso le compagnie organizzavano contro i villaggi spedizioni punitive nel corso delle quali – secondo il rapporto della commissione – uomini, donne e bambini venivano uccisi senza pietà. Con tali metodi le compagnie concessionarie e lo stesso Leopoldo intascarono decine di milioni […] Con le rendite provenienti dal Congo, Leopoldo assicurò a ogni membro della sua numerosa famiglia reale un reddito annuo fra i 75mila e i 150mila franchi; acquistò in Belgio e in Francia vaste proprietà terriere per un valore di circa 30milioni di franchi, e così via. Effettuò spese enormi per corrompere la stampa, creando un apposito ufficio che mascherasse i suoi crimini.

[Fonti: Endre Sik, Storia dell’Africa nera, voll, I, II, La Pietra, Milano 1977;
“Jeune Afrique”, dicembre-gennaio 1998-1999]

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