Pubblicato il 11 Aprile 2021

Retrotopia: quando il passato è sempre meglio del presente

di Vincenzo Matera

Zygmunt Bauman in Retrotopie (Editori Laterza, 2018) aveva individuato una tendenza generalizzata nel mondo globalizzato a guadare con nostalgia al passato.

Proprio come un’utopia al contrario, la “retrotopia” implica una fuga dal presente percepito come incerto e insicuro, per rifugiarsi in un passato tanto rassicurante quanto mitizzato. Una fuga resa evidente dalla crescitadei flussi migratori umani, che si è tradotta tra l’altro nella restaurazione di antichi confini nazionali. La vera sfida per superare quelle istituzioni tipiche dello Stato-nazione verso cui le retrotopie tendono risiede dunque nella capacità di pensare un nuovo modo per vivere insieme.

Tutti coloro che sono chiamati a dire una parola sui migranti non riescono a superare l’argine della gestione rigorosa, del controllo legale, del “dobbiamo intervenire aiutandoli a casa loro”, del “tutti i paesi europei devono fare la loro parte”. Come se i processi migratori fossero un problema che ci investe nostro malgrado, che subiamo passivamente e che quindi dobbiamo arginare, oppure rispetto al quale non abbiamo responsabilità alcuna.

Cosi si susseguono considerazioni del tipo in fondo sono loro che vogliono venire qui, nessuno li ha invitati, noi vorremo continuare la nostra vita nelle nostre città, liberi da stranieri disperati che danno fastidio, sono pericolosi, commettono reati, ci tolgono il lavoro, le case, i posti nelle scuole, riducono l’accesso allo stato sociale e ci infastidiscono ai semafori o fuori dai ristoranti o quando siamo sdraiati a prendere il sole in riva al mare.

Ma, siamo sicuri che il problema sia in questi termini, ospiti indesiderati che cercano di intrufolarsi a casa nostra? Invasori che minacciano il nostro paesaggio culturale omogeneo, familiare, puro e incontaminato?

Porre la questione in questi termini è come restare a metà del guado: da una parte, su una sponda, il mondo com’era fino a ieri, fatto di stati-nazione immaginati “monoculturali”, ben definiti e dai confini netti e difficili da valicare; dall’altra parte un mondo come potrebbe essere, globale, senza confini e dentro il quale le persone sono libere di muoversi come preferiscono. Se ce lo rappresentiamo così, il problema delle migrazioni risulta difficile da affrontare proprio perché non si riesce a completare il passaggio.

Proviamo invece a domandarci che cosa rappresentano i migranti. Quelle centinaia di migliaia di persone, uomini, donne, bambini che vivono qui, e quelle che si mettono in viaggio per raggiungerle, chi sono? Di che cosa sono indice? La risposta è semplice: i migranti danno forma concreta a un processo storico inarrestabile di rimescolamento, che ha sempre segnato la storia dell’umanità e che da qualche anno ha assunto un’intensità senza precedenti. Rimescolamenti di confini, di persone, di fedi, di valori, di abitudini, di cibi, di visioni del mondo, di desideri, sensibilità, creatività, produttività, idee, arte. Non è un’anomalia, è la normalità della storia, che è il luogo di un continuo rimescolarsi.

Da questo punto di vista, i migranti sono uno dei simboli, forse il simbolo, dell’ibridazione culturale contemporanea. Incorporano la mobilità, esprimono il desiderio di realizzarsi un’esistenza altrove, il progetto di un futuro diverso, e anche la capacità di reinventarsi, di ricucire frammenti in contesti e situazioni nuove, di mettere in gioco nuove identità, imparare nuove lingue, gestire abitudini e modi di pensare nuovi, affrontare i conflitti e superare le appartenenze.

I migranti rappresentano una sfida, raccogliere la sfida richiede la capacità di pensare in avanti, verso un futuro in cui le vecchie concezioni degli stati nazione, la Francia, l’Italia, la Spagna, la Germania, gli Stati Uniti, chiusi da confini netti e ben presidiati, vengono meno. Non però per l’avvento di nuove formazioni “multiculturali”, altra assurdità pari quasi a quella della “monocultura”, e destinata, come già accaduto, al drammatico fallimento, ma per l’avvento di una nuova dimensione cosmopolita, popolata da persone che vivono secondo modalità plurali, sovranazionali, agganciate in modo fluido a più posti e a più relazioni, libere di andare dove vogliono nel mondo, nel quadro di una cornice globale dei diritti e dei doveri che sia garante del rispetto delle norme.

E’ un’utopia, una condizione irrealizzabile? Certo. Ma indica la direzione per cogliere il significato dei migranti e per capire che migranti siamo anche noi, che ci culliamo nell’illusione della stanzialità e della purezza culturale, ma siamo immersi fino al collo nel rimescolamento e nell’ibridazione. E’ per questo che i proclami monoculturali e le difese del multiculturalismo appaiono insensate e ridicole; però sono anche indici di quella tendenza sempre più forte dentro il mondo globalizzato di cui scrive con grande acume Zygmunt Bauman in Retrotopie.

Delle due, l’una: o sosteniamo il riconoscimento che quella dei migranti è una condizione ibrida e plurale che viviamo tutti, con intensità e consapevolezza diverse, nessuno escluso, anche la sedicente francese doc e i suoi epigoni nostrani, e che questo è il futuro che vogliamo e che ci piace, oppure sosteniamo e alimentiamo una retrotopia, il desiderio di tornare indietro, ricostruire barriere, affermare la nostra cultura “pura” e incontaminata, rifiutare i migranti.

Ma su questa agognata purezza culturale la storia europea dovrebbe già averci insegnato qualcosa.

Vincenzo Matera

In fotografia: Toledo Metro Station in Naples, Bernardo Ricci Armani, Napoli, 2015. Photographingaround.me

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