Pubblicato il 26 Novembre 2021

Abbiamo ancora bisogno degli intellettuali?

di Franco Brevini

Il modello dell’eccellenza, accolto fin dall’antichità, valorizzava i migliori. La parola élite viene dal latino eligere, “scegliere”, e raccomanda appunto la scelta dei migliori, gli “eletti”. Neanche in passato gli eletti erano sempre i migliori, e il primato non necessariamente coincideva con l’eccellenza.

Ma oggi non è questa discordanza a essere messa in discussione, perché il rifiuto non riguarda solo l’autorità indegna: riguarda ogni autorità. Stabilire cosa sia esattamente accaduto non è facile, perché la questione cambia aspetto a seconda che venga osservata dal punto di vista della gente o da quello delle élite. Per la gente il rapporto tra popolo ed élite è saltato perché le classi dirigenti non hanno più saputo mettersi alla guida della società, non hanno interpretato gli interessi generali, non sono state in grado di unire una nazione intorno a obiettivi comuni. Si sono insediate al potere e si sono autoriprodotte, cannibalizzando pezzi di Stato.

Nella prospettiva opposta, è invece l’uomo contemporaneo che, avendo conquistato un’orgogliosa autopercezione, la quale può sfociare nell’egolatria, non si fida più che di sé stesso. Certo è che intorno a chi occupi una posizione eminente, indipendentemente dalla sua autorevolezza, si è venuto addensando un sospetto sempre più diffuso. Anche se strampalata, qualsiasi rivendicazione che vada a contrastare un’asimmetria viene presa sul serio. Invece che come un riferimento prezioso per la sua competenza, l’autorità viene vissuta a priori come un’ingiustizia e un sopruso. Il problema oggi è costituito non dalle cattive élite, ma dalle élite in quanto tali, al punto che, redditiziamente cavalcato dal populismo, il conflitto tra popolo e gruppi dirigenti, almeno dalla Brexit e dall’elezione del presidente Trump in poi, si è venuto imponendo come uno dei tratti più caratteristici della nostra epoca.

Protagoniste di questo rifiuto sono oggi le maggioranze dei “più numerosi”, che hanno alle spalle due secoli di rinforzo dell’io, al punto da credere di poter fare qualsiasi cosa e di avere tutti i diritti, e che oggi possono contare su inediti strumenti di informazione e di conoscenza. Ma se la conquista della soggettività resta un valore irrinunciabile delle società occidentali, altro discorso merita la deriva dell’iperindividualismo, che in alcuni casi si è spinta oltre la rivendicazione della pursuit of happiness, del diritto all’autorealizzazione. In nome della libertà individuale, siamo andati ben al di là dell’emancipazione del soggetto dalle antiche sudditanze, sfociando nel delirio egotistico del dirittismo.

Non si tratta solo di questo. Al rifiuto delle élite hanno contribuito anche elementi strutturali dei nostri sistemi economici, che trascendono la sfera della soggettività. Il più decisivo è la stagnazione che dura ormai da anni e che ha colpito soprattutto le classi medie dei paesi occidentali. Quella che Michael Sandel, docente di filosofia politica all’Università di Harvard, chiama la “retorica dell’ascesa” aveva promesso opportunità per tutti all’interno del capitalismo. Malauguratamente ha invece lasciato per strada troppa gente. Alla frustrazione e al risentimento suscitato dalle logiche inique del neoliberismo, che hanno creato disuguaglianze, disoccupazione, insicurezza, anche le sinistre hanno saputo fornire risposte troppo deboli, insistendo sull’appello alla qualificazione e al merito.

Che appeal poteva avere una proposta da cui restava comunque esclusa la grande maggioranza di quelli che non ce la fanno, a maggior ragione in un paese caratterizzato dal culto della meritocrazia? Anche negli Stati Uniti sono state le scelte dei Clinton e di Obama a consegnare nelle braccia di Trump l’elettorato che si era sentito cacciato dal banchetto. L’ascesa del populismo, che sembrava dare risposte convincenti ai meno abbienti e attribuire loro una nuova dignità sociale, si è accompagnata a una diffidenza sempre più marcata verso le classi professionali istruite, le teste d’uovo, le burocrazie della conoscenza, che compongono le élite. Non era solo una questione di valori: era in primo luogo una questione di giustizia.

Il bersaglio del rancore di larghi strati della popolazione sono stati il sussiego e la supponenza di chi, forte delle proprie risorse cognitive e analitiche, parlava dalle cattedre universitarie, dalle redazioni dei media, dai vertici degli istituti di ricerca, dagli studi di consulenza, dai think tank. Il rifiuto del merito, del valore e della competenza è stato pronunciato in nome dei diritti di tanti convinti di essere stati ingiustamente lasciati indietro.

Se il ripristino della giustizia e dell’equità costituiscono obiettivi sacrosanti, come lo è rivendicare la dignità di ogni lavoro, additare però modelli che non puntino sulla qualificazione può essere pericoloso in un mondo come quello odierno, in cui la conoscenza ha un ruolo tanto centrale nell’economia: lo dimostrano paesi in poderosa crescita come la Corea del Sud, la Cina, ma anche il Giappone e Singapore.

La soluzione non è avere meno selezione, né meno laureati che formino élite qualificate, bensì puntare sulla redistribuzione interclassista dei laureati, riequilibrando socialmente gli accessi all’istruzione superiore mediante politiche di correzione delle disuguaglianze. Questa prudenza vale a maggior ragione per un paese come l’Italia, non certo all’avanguardia per numero di laureati e, tantomeno, per l’ossequio alla meritocrazia.

Franco Brevini

Franco Brevini, Abbiamo ancora bisogno degli intellettuali?, Raffaello Cortina Editore, 2021

Di 26 Novembre 2021Cultura, Filosofia

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