Benché anche Ginzburg nel suo saggio citasse la serendipità, le connessioni tra le capacità abduttive e il trovare ciò che non si va cercando restano assai deboli. Lo dimostra il fatto che, sulla scia di Zadig, tutti i campioni del sapere indiziario siano pressoché infallibili, altro che scienza dell’inatteso. Devono risolvere un mistero, applicano il metodo indiziario e colgono nel segno. Nei Delitti della Rue Morgue, capolavoro poliziesco di Edgar Allan Poe, estremizzazione letteraria dell’abduzione che ispirò Arthur Conan Doyle, il detective Auguste Dupin analizza ogni dettaglio, procede per esclusione e riesce persino a leggere nella mente del suo amico, ricostruendo i passaggi del suo ragionamento.

“L’osservazione è una specie di necessità”, sentenzia. Certo, bisogna pensare a ciò che nessuno ha pensato, come lo scienziato dinanzi a un’anomalia, non ritrarsi nemmeno di fronte alle ipotesi più strane (persino che il colpevole sia un orango), ma alla fine comunque, magari con l’aiuto della gloriosa teoria delle probabilità, “l’esperienza rivela sempre la sua vera logica”. Gli avvenimenti collaterali e accidentali sono importanti, ma Dupin li domina rendendoli “oggetto di calcolo assoluto”, riconducendo l’imprevisto a formula matematica. Il risultato finale dunque è negazione della serendipità.

Sherlock Holmes non è da meno. Il suo inventore, Arthur Conan Doyle, era medico, allievo e segretario di un esperto di semeiotica medica, Joseph Bell, chirurgo a Edimburgo, amante dell’induzione, delle connessioni tra indizi, mago delle diagnosi in corsia, che poi il giovane Arthur Conan Doyle doveva redigere per iscritto. Conan Doyle scrisse i primi bozzetti del suo personaggio mentre aspettava i pazienti nel suo ambulatorio specialistico, tra un viaggio in nave e l’altro come medico di bordo. Per un anno studiò anche la tubercolosi in Germania con R