Pubblicato il 9 Novembre 2024
Reportage_Vita nomadica in Mongolia
di Leonardo Porcelloni e Tsetsegbaatar Chuluunbaatar
Il primo incontro con la Mongolia e la cultura nomadica è stato all’alba, appena dopo l’atterraggio, esplorando l’informale periferia gher di Ulaanbaatar. “Gher” (гэр) è la parola che indica le tradizionali iurta (yurt) della Mongolia, tradizionalmente progettate per essere smontate e trasportate in base ai cambiamenti stagionali e alla vita nomade. Nelle steppe mongole non si è mai adottato l’uso di stalle: piuttosto che modificare le abitudini degli animali, l’uomo ha preferito adattarsi alle loro esigenze seguendoli nelle migrazioni stagionali. Questo stile di vita unico si basa su un profondo rispetto per la natura e su una filosofia di zero sprechi.
Molti degli abitanti dell’attuale distretto gher sono ex pastori nomadi, costretti ad abbandonare la steppa a causa della desertificazione e di inverni estremamente rigidi, risultanti in fenomeni naturali particolarmente disastrosi detti dzud. In particolare, nel 2010, un dzud ha sterminato circa 8.5 milioni di animali, tra cui bovini, pecore, e yak. Molti pastori non dispongono di strutture adeguate per proteggere il bestiame da queste condizioni estreme. Anche se i mongoli sono storicamente abituati a sopportare inverni freddi, gli dzud degli ultimi anni, con temperature che arrivano fino a -50°C, li hanno posti in una vera condizione di emergenza, non solo climatica, ma anche economica.
Ecco che migliaia di pastori, privati della loro fonte di sostentamento, hanno lasciato la steppa alla volta della capitale. Qui hanno costruito piccole recinzioni (khashaa) e hanno eretto gher o case in mattoni con tetti di lamiera. Questi insediamenti informali continuano a crescere rapidamente e, durante l’inverno, i residenti bruciano carbone grezzo, gomma e persino plastica per riscaldarsi. Questo fenomeno di migrazione interna, dalla campagna alla città, sta mettendo a rischio la sopravvivenza delle tradizioni nomadi.
Al contrario, la Mongolia è ben più nota come destinazione di viaggio relativamente inesplorata rinomata per i suoi paesaggi semi-naturali e la cultura nomade profondamente radicata. Con una delle densità di popolazione più basse al mondo, la vastità delle praterie mongolo-manciuriane, i deserti, così come le numerose montagne, fiumi e laghi in Mongolia si incontra soprattutto un turismo di tipo naturalistico. In seguito al crollo dell’Unione Sovietica, il turismo in Mongolia si è sviluppato notevolmente, e si nota anche un crescente interesse anche nel patrimonio culturale legato alla vita tradizionale nomadica. Si incontrano vari viaggiatori alla ricerca di esperienze che permettano di vivere l’“autenticità” della vita tradizionale mongola.
In questo contesto, la campagna nazionale “Go Mongolia” sotto lo slogan “MonGOlia, Always Moving” svolge un ruolo cruciale nella promozione del Paese. Sostenuto dalla Banca Mondiale, il governo della Mongolia ha lanciato nuovo concetto di brand nazionale al fine di aumentare anche gli investimenti esteri nel settore delle esportazioni della Mongolia e rilanciare il turismo. La campagna enfatizza l’autenticità della vita tradizionale mongola e incoraggia i viaggiatori a interagire con le comunità locali, promuovendo pratiche turistiche sostenibili.
Di conseguenza, le comunità locali offrono spesso accoglienza all’interno delle loro gher, permettendo ai visitatori di vivere da vicino la vita pastorale, spesso con la possibilità di fare escursioni a cavallo o in cammello. Questa forma di turismo rappresenta senz’altro una fonte di reddito significativa per molte famiglie, le quali integrano così le attività pastorali con quelle turistiche.
Al momento, tali attività sembrano essere prevalentemente concentrate nelle aree vicine alla capitale, come il Parco Nazionale di Gorkhi-Terelj, o in altre zone di interesse come le dune di Elsen Tasarkhai. Questi luoghi offrono la possibilità di osservare le dinamiche turistiche, in gran parte rivolte a visitatori asiatici (sudcoreani, giapponesi, e cinesi), ma meno legate alle tradizioni nomadiche.
A circa 6 ore di autobus dalla capitale, si arriva a Kharkhorin, insediamento che custodisce il mito della capitale storica del regno di Chinggis Khaan. Dopo un’ora di strada asfaltata in auto, ci si addentra nella vasta distesa verde che si estende a perdita d’occhio. A volte si seguono tracce di altri mezzi, altre si prosegue liberamente attraverso i prati tenuti bassi dal continuo pascolare degli animali. Dopo aver percorso chilometri e superato piccoli accampamenti, a metà strada ci fermiamo presso una gher per chiedere informazioni sulla direzione per raggiungere la famiglia che ci ospiterà.
Veniamo accolti con la tipica scodella di latte fresco di cavalla (saamal airag). Dopo aver bevuto, si passa la scodella agli altri ospiti e ad ogni sorso viene riempita fino all’orlo con un mestolo. Insieme al latte, ci vengono offerti piccoli pezzi di formaggio di cavalla, detto aaruul, uno spuntino ricavato dallo yogurt bollito e essiccato, spesso esposto all’interno della gher per essere sempre pronto.
All’interno della gher è appesa una sacca di pelle di vacca, chiamata khokhuur, utilizzata per fermentare il latte di cavalla. Il latte deve essere mescolato ripetutamente con un pestello di legno, il buluur, dalle 3.000 alle 5.000 volte in uno o due giorni, per garantire una fermentazione uniforme. Questo procedimento serve a preparare l’airag, una bevanda leggermente alcolica, conosciuta come chemisi in “Il Milione” di Marco Polo, che può anche sostituire i pasti nei periodi caldi, grazie alle sue proprietà depurative, soprattutto dopo il consumo eccessivo di carne in inverno.
Al centro della gher si trova la tipica stufa con canna fumaria, che si allunga fino al tendone e poi all’esterno. Davanti alla stufa c’è una scorta di combustibile, costituito da sterco essiccato di vacca (argal), pronto per essere utilizzato. Dopo esserci rifocillati ed aver contribuito a mescolare l’airag, riprendiamo il viaggio. Attraversiamo un torrente, con qualche sobbalzo, e passiamo accanto a un gruppo di cammelli che pascolano liberamente.
Quando arriviamo all’accampamento, ci accolgono tre gher posizionate su una piana che degrada verso il torrente, un pannello solare, un pick-up, una motocicletta e una mandria di cavalli recintata. Una corda tesa tra due pali, detta zel, serve per legare i cavalli. All’esterno, una bambina mescola il latte, mentre suo fratello più piccolo la osserva e gioca. Due cani da guardia si avvicinano curiosi e la nonna di famiglia ci dà il benvenuto.
Con il sole al tramonto e l’aria che si rinfresca, la signora accende la stufa per preparare la cena. Il riso viene cotto nel latte e mescolato con cura. I genitori tornano dal pascolo e dalla mungitura; arriva il momento di offrire i nostri doni per ringraziare dell’ospitalità. Condividiamo lo shimiin arkhi, una vodka tradizionale mongola al latte, conosciuta ironicamente come “tricky water” per il suo sapore leggero e aspetto trasparente, ma con un alto contenuto alcolico. Come per le altre bevande, utilizziamo una sola scodella che passa di mano in mano tra gli ospiti.
La mattina seguente, noto dei vassoi sopra la gher con degli aaruul ad essiccare al sole. Quando i nomadi hanno molto latte, producono questi formaggi una o due volte a settimana. Durante il mio soggiorno, ogni giorno mi viene offerto un piatto diverso, tra cui i buuz, ravioli ripieni di crema di latte, erbe e cipolla, la cui pasta, con la quale si preparano anche delle simil tagliatelle, è composta da farina di frumento macinata in casa e acqua. Come lampante segno di contaminazione culturale, i due bambini spruzzano del ketchup sopra ai ravioli. Ad onor del vero va detto che, pur essendo la Mongolia un Paese che consuma molta carne, la famiglia aveva adattato i pasti alla mia dieta vegetariana, e questo ne spiega l’assenza nei piatti. Attorno agli accampamenti, infatti, si trovano vari resti di ossa animali.
Tipicamente, nella parte opposta all’ingresso, si trovano dei piccoli altari buddhisti con ruote di preghiera e foto di familiari. Spesso adesso si trova anche una televisione. Infatti, da tempo, i nomadi non sono più così scollegati dal resto del mondo. La globalizzazione ha introdotto nuove tecnologie anche tra le famiglie nomadi: di frequente, come parte dello scenario dell’accampamento nomadico, si trova un pannello solare sorretto da un palo di legno. Anche i bambini maneggiano uno smartphone e così scorrono rapidamente dall’alto verso il basso immagini e suoni provenienti dai Paesi asiatici confinanti e occidentali.
Al contempo, mantengono il loro stile di vita tradizionale. Chiaramente non vi è acqua corrente o il bagno – vi sono il torrente e la sconfinatezza dei campi – e neppure la latrina, che invece si incontra spesso nelle piccole località di sosta attraversate dalle strade di lungo scorrimento, un po’ come in nostri autogrill. Indossano poi la tipica tunica con cintura, il deel, sia durante i giorni di festa che nel lavoro quotidiano, la quale si rivela molto utile contro i forti venti delle steppe.
Al mattino, accompagno alla mungitura, ma non dei cavalli, poiché sono più nervosi con gli estranei. Il padre di famiglia mi invita a salire sulla motocicletta, attraversando campi e dossi per recuperare pecore e capre. Con una mano tiene l’uurga, un lungo bastone che arriva fino agli 8 metri dotato di un cappio all’estremità per afferrare il bestiame, mentre lo appoggia sullo sterzo. La motocicletta ha spesso sostituito il cavallo, così come i pick-up hanno rimpiazzato gli animali da trasporto per gli spostamenti degli accampamenti.
Il nomadismo mongolo segue quattro spostamenti stagionali, dettati dalle esigenze degli animali e dalle risorse naturali, in un ciclo immutato da generazioni. Per questo motivo, questo fenomeno non si riduce a un semplice vagabondare attraverso le steppe, ma segue itinerari ben definiti, stabiliti dall’ambiente. Ogni territorio è conosciuto e rispettato dalla famiglia limitrofa. Nel caso specifico della famiglia in cui mi trovo, mi viene riferito che loro sono proprietari degli appezzamenti dei terreni primaverili e invernali.
Quindi, grazie a Enkhmend Sugar che mi accompagna nelle traduzioni, cerco di tracciare una linea sugli spostamenti stagionali della famiglia: con l’arrivo dell’autunno, a settembre, si dirigono a nord-est a circa 20 km dal luogo in cui ci troviamo; a novembre, in vista del rigido inverno, raggiungono la successiva località a 12 km ad ovest dalla precedente; nel mese di marzo si spingono verso le steppe per la primavera a 33 km in direzione sud-est; a giugno, a nord a solo un km e mezzo dalla precedente, raggiungono l’attuale radura. La breve distanza è motivata da un semplice avvicinamento al torrente e sufficiente a diversificare il pascolo. Adesso, durante l’annualità scolastica, i due bambini risiedono con la nonna presso il vicino centro di Kharkhorin cosicché possano frequentare le scuole. Tornano all’accampamento nomade nel periodo estivo, momento in cui ritornano i genitori dediti alla vita tradizionale.
Prima della partenza, all’alba, mi viene preparata la khailmag, una crema a base di latte, cotta con farina e zucchero. I bambini dormono e i genitori si stanno preparando per il lavoro. Mentre mi avvio verso la macchina, la nonna esce con una scodella di latte di cavalla e, mentre ci allontaniamo, vedo dal lunotto posteriore che lo lancia in aria quale augurio di buona fortuna e buon viaggio. Si tratta dello tsatsal, un rituale che consiste nel gettare in aria latte, ma anche tè o bevande alcoliche, come offerta agli spiriti e alle divinità simboleggiando il rispetto e la connessione con il mondo spirituale.
Oggi, il nomadismo continua a giocare un ruolo centrale nella cultura e nell’identità della Mongolia, anche se le sfide della modernizzazione, climatiche e dell’urbanizzazione stanno incidendo sulla sua pratica. Le istituzioni mongole e internazionali quali il Ministero della Cultura, Sport, Turismo e Gioventù della Mongolia e l’International Institute for the Study of Nomadic Civilizations under the auspices of UNESCO (IISNC), cercano di preservare e valorizzare questo patrimonio unico, riconoscendo l’importanza del nomadismo per il tessuto sociale e storico del Paese.
Il “Nomads” World Cultural Festival, al quale abbiamo partecipato dal 16 al 18 agosto 2024, è stato organizzato per la prima volta nel 2022 come evento nazionale con l’obiettivo principale di preservare, proteggere e promuovere il ricco patrimonio della Mongolia. Il Festival intende assicurare che le antiche tradizioni, i rituali e le pratiche nomadi vengano trasmesse alle generazioni future, mantenendo la loro rilevanza nella società odierna. Questo evento serve anche come piattaforma per celebrare i custodi di queste tradizioni, promuovere la creatività e sensibilizzare il pubblico, in particolare i giovani, riguardo alle proprie radici culturali.
Il Festival di quest’anno, ambientato nella steppa fiorita di stelle alpine e camomilla ai piedi della maestosa montagna Taij Khairkhan, è dedicato alla diffusione e celebrazione della cultura nomade in tutte le sue forme.
Tsetsegbaatar Chuluunbaatar, coordinatore dell’evento, spiega che l’obiettivo è promuovere lo scambio culturale tra le diverse comunità nomadi del mondo:
«Il nostro obiettivo», afferma Tsetsegbaatar, «è quello di preservare le tradizioni ancestrali e, allo stesso tempo, sensibilizzare il pubblico sull’importanza della vita sostenibile, della cura dell’ambiente e del rispetto delle tradizioni culturali. Attraverso questa piattaforma, vogliamo garantire che le giovani generazioni conoscano e comprendano la ricchezza delle loro radici, creando un ponte tra passato e presente».
Nel 2024, il Festival è cresciuto significativamente in termini di portata, diventando più unico e innovativo nei contenuti, nella forma e nell’organizzazione. Oltre 1.000 custodi delle tradizioni, provenienti dalle 21 province della Mongolia e dalla capitale, insieme a circa 150 partecipanti da 14 Paesi esteri, si sono riuniti nel Nalaih District. Qui, hanno allestito i loro accampamenti tradizionali, o otog , sistemando i loro effetti personali e offrendo straordinarie esibizioni di arti tradizionali. Per diversi giorni, i partecipanti hanno condiviso esperienze preziose e discusso opportunità di cooperazione per preservare e valorizzare i valori della civiltà nomade. Nel contesto di questo festival culturale globale, è stato allestito un ambiente tradizionale che ha coinvolto bambini, giovani e spettatori in circa 780 programmi, con 362 espressioni di patrimonio culturale immateriale provenienti da sette diverse regioni. Il Festival si è concluso con grande successo, offrendo uno spazio di apprendimento e tutela di queste tradizioni, promuovendo così quella che si potrebbe definire una “immunità culturale intellettuale”.
A questa manifestazione, ad Ulaanbaatar (National University of Mongolia) si è affiancato il Second Biennial Cambridge Mongolia Forum intitolato “World Problem, Nomad Solution” allo scopo di promuovere il dialogo su come il patrimonio nomade possa essere preservato e promosso per offrire soluzioni i
nnovative e pertinenti ai problemi globali di oggi, come il cambiamento climatico e i conflitti.
Per la Mongolia, la recente riscoperta e trasformazione della propria identità culturale rappresenta un motivo di grande orgoglio. Questo “rinascimento” – termine coniato dopo il crollo del sistema socialista, la cui interpretazione attuale sembra più orientata a celebrare le glorie del passato piuttosto che a guardare verso il futuro – si manifesta chiaramente nella creazione del Museo Nazionale Chinggis Khaan, insieme ad altri nuovi musei e centri culturali a livello nazionale, e nel Nomads World Cultural Festival, rafforzando così il ruolo della Mongolia come punto di riferimento globale per la cultura nomade.
Nonostante le difficoltà, il nomadismo in Mongolia rimane un pilastro fondamentale della cultura e dell’economia, fornendo sostentamento e identità a una parte significativa della popolazione. Molti mongoli sono ancora legati al nomadismo pastorale, ma uno dei progressi più rilevanti è stato nell’alfabetizzazione, con un accesso maggiore all’educazione. Ciò ha reso i nomadi più consapevoli e partecipi nella vita politica, contribuendo a una maggiore inclusione nelle elezioni. Tuttavia, la modernizzazione e l’urbanizzazione stanno rapidamente trasformando il loro stile di vita, creando tensioni tra la conservazione delle tradizioni e il cambiamento inevitabile.
Leonardo Porcelloni e Tsetsegbaatar Chuluunbaatar
Le fotografie sono state fatte dall’autore Leonardo Porcelloni durante il suo soggiorno in Mongolia nell’estate 2024. La fotografia di apertura rappresenta una famiglia locale che organizza escursioni in cammello tra le dune del Mini Gobi, Elsen Tasarkhai.
Rivista di Antropologia Culturale, Etnografia e Sociologia dal 2011 – Appunti critici & costruttivi