Pubblicato il 26 Gennaio 2025

“Il potere dei talebani si fonda sulla paura”

di Zainab Entezar

“Nella prigione mi misero in una piccola cella fredda, in isolamento. Quella notte un soldato venne a dirmi che avevano intenzione di lapidarmi. Mi sollecitò a fare le abluzioni e a recitare la mia ultima preghiera, che Dio, forse, mi avrebbe perdonata. Lo feci e rimasi in attesa della mia esecuzione. Quando poi la lapidazione non ci fu, pensai che anche quella è una forma di tortura per annientare lo spirito dei detenuti. O forse erano stati obbligati a non procedere per la pressione internazionale: se era così, significava che le mie compagne erano subito riuscite a diffondere all’estero la notizia del mio arresto. Il giorno dopo iniziarono gli interrogatori e con gli interrogatori le torture. Mi colpirono con un bastone elettrico fino a farmi perdere conoscenza. Quando mi riportarono in cella dissi loro che ero malata e avevo bisogno di antidolorifici.

Non solo non me li diedero, ma infierirono su di me con altre umiliazioni e offese. Durante le torture e gli interrogatori che seguirono, emerse tutto il loro disprezzo verso di me, che pur essendo pashtūn mi schieravo contro di loro al fianco di altre donne. Mi accusarono di tradire la mia gente e mi torturarono con maggiore violenza: mi colpirono ripetutamente alla schiena con uno strumento [dande] elettrico, finché non ebbi più la forza di stare in piedi.

Nell’interrogatorio successivo mi accusarono di apostasia per aver partecipato alla manifestazione in cui era stato bruciato un burqa, quando in realtà alle proteste di quei giorni io non avevo preso parte. Come al solito non mi credevano e non smettevano di torturarmi e insultarmi. Secondo loro il burqa era legge islamica e le donne che non lo accettavano dovevano essersi convertite a un’altra religione. Mi dissero che nelle moschee i fedeli avevano emesso all’unanimità una fatwā, secondo cui le donne che avevano dato fuoco al burqa dovevano essere giustiziate.

Mi accusarono poi di molte altre cose, per giustificare le torture che mi infliggevano.

I talebani non hanno ottenuto quello che volevano, al contrario: in me, il potere delle loro torture e delle violenze è stato infranto. Non era rimasto nulla di peggio che mi potessero fare, e io uscii viva da quel luogo di orrori. La paura dei talebani è entrata nel mio essere, ma non sono riusciti a cambiarmi nello spirito: il mio odio verso di loro si è accresciuto. Se ho messo per iscritto una confessione e ho firmato l’impegno a non uscire dall’Afghanistan, è stato per poter uscire e per mostrare al mondo che avevo sconfitto i talebani in quel luogo di tortura.

Torturarono anche mio cognato finché poterono: gli inflissero una quantità tale di scosse elettriche e di colpi sulla nuca, che è quasi del tutto cieco.

I talebani dominano terrorizzando la gente, non con il consenso, che è l’unica condizione necessaria perché un governo abbia una continuità. Un dominio basato sulla forza e sulla tortura non può durare: presto o tardi questa massa di ignoranti sparirà assieme al suo emirato”.

Parwana Ibrahim Khil, Il potere dei talebani si fonda sulla paura, pp.159-161

 

“Quella sera a casa, mentre ero seduta davanti alla tv a guardare il telegiornale con mio figlio e mio marito, va in onda per intero il mio discorso. Mio marito non mi riconosce dietro il velo, e non riconosce neppure la mia voce. Non fa altro che esaltare quella donna: “Oh che donna coraggiosa e rivoluzionaria! Che padronanza di linguaggio, che logica, che argomentazione, magari fossi anche tu come questa leonessa!”.

Rido e gli dico: “Se io avessi la mia libertà, forse avrei strumenti per fare attivismo civile anche meglio di lei!”.

E così ancora una volta mi trovo di fronte all’amara realtà: mio marito vuole libertà e diritto all’attivismo per le altre donne, ma non per me. Con dispiacere constato nuovamente come mio marito sia uguale agli altri uomini afghani, che hanno una mentalità talebana e credono che le donne esistano solo per formare una famiglia: se poi vogliono anche lavorare o studiare devono assolutamente avere il permesso dei loro mariti. E le ragazze a loro volta devono ottenere il permesso di studiare dai loro padri. Tutto questo mio marito me l’aveva ripetuto chiaramente più volte e anche ora continua a esprimere tali convinzioni. […] L’ansia e la paura sono i sentimenti dominanti nella gente, uomini e donne ne sono completamente presi e le fughe verso l’aeroporto [di Kabul] ne sono prova, al punto che se venissero aperte le frontiere, in questo paese non rimarrebbe nessuno. Può darsi che i talebani abbiano provato piacere nel mostrare al popolo il loro volto potente, ma secondo me non è così. Quello non è potere. Il loro volto è quello della brutalità. Il loro comportamento terrorizza e nel vederli la gente non si sente al sicuro ma vive un senso di paura come quando si trova faccia a faccia con una bestia selvatica”.

[…]

“Devo confessare qualcosa di spiacevole al mondo: sono così spaventata e ansiosa che da tempo ho perso il controllo della vescica. Devo indossare un pannolino, come i bambini. Non c’è pena più grande di questa: sono in casa d’altri e soffro del mio cattivo odore, e così anche gli altri, ma non me lo mostrano, fingono di non sapere nulla della mia malattia. Per quanto posso, sto loro lontana e passo il tempo in solitudine. Ho visitato un neurologo diverse volte, ma i suoi sedativi hanno avuto un effetto irrilevante su di me”.

Khatol Farhod, Malati di fanatismo religioso, pp.253-274)

 

“La vita che facevano gli afghani nel proprio paese non era davvero vita, ma solo un continuo penare per restare vivi”

(Nayera Kohestani, La libertà, la cosa più preziosa si ottiene solo combattendo, p.133)

 

Zainab Entezar

Zainab Entezar, Fuorché il silenzio. Trentasei voci di donne afghane. Testi raccolti da Zainab Entezar, rivisti da Asef Soltanzadeh. Edizione italiana a cura di Daniela Meneghini, Jouvence

Le autrici di questa raccolta sono trentasei donne afghane, attiviste per i diritti civili che, al ritorno dei talebani al governo dell’Afghanistan (agosto 2021), hanno intrapreso proteste e manifestazioni contro le leggi sempre più restrittive dei diritti delle donne imposte dal loro regime. Zainab Entezar – regista e scrittrice – ha raccolto le testimonianze e Asef Soltanzadeh – scrittore afghano emigrato in Iran e ora residente in Danimarca – ne ha curato l’edizione e la stampa. Daniela Meneghini – docente di Lingua e letteratura persiana all’Università Ca’ Foscari di Venezia – coadiuvata da alcuni collaboratori, ne ha curato la prima traduzione in una lingua europea.

 

Immagine di Freepik

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