Pubblicato il 27 Agosto 2020

Comunicazione non violenta ed etica del linguaggio al tempo dei social media: chi parla e chi ascolta?

di Giacomo Buoncompagni

Le moderne scienze comportamentali suggeriscono come gli essere umani siano più mossi dalle emozioni che dalla ragione, come noi tutti preferiamo mantenere intatti i nostri pregiudizi anche se ciò a cui crediamo si dimostra poi totalmente errato, come  siamo sempre meno disponibili al confronto e abili haters (odiatori) davanti ad uno schermo. In poche parole: ascoltiamo e comunichiamo non per capire, ma solamente per rispondere e confermare un proprio pensiero, evitando il confronto con il nostro interlocutore che sembra sostenere una tesi diversa dalla nostra.

Alcuni sociologi, analizzando la dimensione comunitaria nel nuovo scenario digitale, riconoscono la nascita di nuove forme di legami che definiscono “neo-tribali”: le modalità per sentirsi vicino a una persona ruota esclusivamente attorno ad uno stato emozionale comune: la simpatia.

Tali formazioni chiuse, autoreferenziali, non hanno progetti comuni, non diffondono conoscenza, non sono classificabili come  “intelligenze collettive e connettive”, ciò che le muove è il semplice desiderio di sentirsi parte di un gruppo dove tutti la pensano allo stesso modo; dunque  non c’è confronto, ognuno vive tranquillo con le proprie verità nella propria “bolla culturale”.

L’utilizzo inconsapevole dei  social media in questo senso rischia di essere utilizzato per costruire strategie difensive per deviare dall’eticità, per sfuggire al processo di negoziazione e condivisione necessario (per sua definizione) in un processo comunicativo-relazionale. Paul Ricoeur, filosofo della comunicazione, affermava come fosse  necessario individuare sempre una “situazione limite” in ogni cosa e cioè capire quando l’utilizzo dei social nutre o danneggia una società. Riconsiderare la dimensione etica e umana della comunicazione è un passo necessario; più che capire come comportarci nel nuovo ecosistema mediale dovremmo seguire tre principi/virtù che il filosofo ci suggerisce e che ogni individuo dovrebbe seguire e trasformare in pratiche mediali contemporanee (Silverstone 2009; Couldry 2015):

-precisione: capacità di mettere in campo risorse e accertarsi che quello che stiamo comunicando sia chiaro e preciso in modo da favorire feedback;

-sincerità: essere disposti a dire quello che effettivamente si pensa, creando confronto, partecipazione attiva e critica negli ambienti social;

-cura: saper “curare” le conseguenze della mia comunicazione; ogni contenuto messo in circolo può infastidire o interessare ed è necessario essere in grado di prevedere questo doppio effetto.

A quest’ultimo concetto potremmo legare quello di “ospitalità” espresso dal sociologo britannico Roger Silverstone (2009): nella nuova società mediale trasparente e connessa è d’obbligo imparare ad ascoltarsi e rispettarsi anche all’interno dell’ambiente digitale, attivare quel riconoscimento reciproco anche attraverso il medium, per non rimanere schiacciati dall’eccesso di (dis)informazione e di partecipazione.

Disintossicare il web ed educarci ai media è possibile a partire dalla creazione di un nuovo storytelling positivo e responsabile, che punti al bene comune e non all’autocelebrazione, all’ascolto dell’Altro e non al maggior numero di like. La diffusione del bene moltiplica il bene, genera un nuovo ecosistema di sapere e contenuti che rafforzano il benessere e la coesione sociale. Oltre alla dimensione etica c’è un altro punto interessante: la gestione del tempo di convers-azione.

Il tempo all’interno del web è sinonimo di dialogo, strategia, azione e ascolto attivo, ma bisogna essere in grado di saperlo gestire e questo significa innanzitutto iniziare ad accettare che il contesto ipermedializzato in cui ci muoviamo si nutre di opinioni, stati emotivi differenti che devono diventare  strumento di maggior confronto e negoziazione e non di odio e falsità.

La nuova competenza mediale da sviluppare riguarda la capacità di “compartimentale il nostro tempo di convers-azione”, saper costruire una risposta sempre meno istintiva ed emotiva, ma più ragionata, approfondita, sincera, basata su una comunicazione assertiva e quindi chiara ed efficace senza bisogno di prevaricare il nostro interlocutore. Questa è una sfida ulteriore della contemporaneità:  prendersi tempo per conversare, anche in Rete, evitando il conflitto e le incomprensioni.

Più che una cultura dell’emozione e dell’informazione il rischio oggi è quello di intraprendere un cammino verso una cultura dell’odio e della violenza, personalizzando in modo eccessivo la propria comunicazione prevaricando l’altro. Fondamentale è rivalutare, riflettere e rieducarci a comunicare in modo corretto ed empatico. La comunicazione è dialogo, comprensione, condivisione tra individui di storie, caratteristiche, comportamenti, esperienze e visioni differenti della realtà. Per questo è importante conoscere i principi della comunicazione non violenta per alimentare il confronto ed evitare la violenza verbale in ogni momento della quotidianità.

Lo studio della Comunicazione Nonviolenta (CNV)  inizia ancora prima dell’era dei social media, in particolare con il lavoro di  Marshall Bertram Rosenberg, che, dopo aver conseguito un dottorato in psicologia clinica presso l’Università del Wisconsin  ha dedicato la sua vita professionale allo studio di nuove forme di comunicazione che possano fornire delle alternative pacifiche alla violenza.

Nel 1984 ha fondato il Centro per la Comunicazione Non Violenta, un’organizzazione internazionale no-profit, che ha diffuso il suo linguaggio in trenta Paesi. Rosenberg spiega nel suo modello come i “nemici dialettici” possano tornare ad essere amici dialettici, come nel quotidiano professionale (e anche privato) la comunicazione possa svolgersi in modo costruttivo.

Il modello della comunicazione non violenta è una combinazione tra comportamento e tecnica: molti conflitti insorgono per una comunicazione male interpretata. La comunicazione non violenta fornisce importanti impulsi ad interventi preventivi, finalizzati a individuare soluzioni ai conflitti che soddisfino tutti gli interessati, evitando di cercare compromessi che darebbero nuovamente spunto ad atti di violenza. La comunicazione non violenta aiuta a risolvere le controversie in maniera efficace e con soddisfazione di tutti e a trasformare – con rispettosa attenzione – i potenziali conflitti in colloqui chiarificatori.

Tale modello, facilmente applicabile anche al dialogo all’interno delle piattaforme digitali, dove comportamenti umani e distorsioni comunicative nascono o si ripetono similmente cosi come nello spazio offline, descrive quattro stadi della comunicazione non violenta:

1) Osservazioni

Le osservazioni fatte su una situazione devono essere espresse in maniera chiara e senza valutazioni e devono essere interpretate senza pronunciare giudizi. Nelle osservazioni non devono interferire i sentimenti, altrimenti valutazioni e giudizi sono inevitabili.

2) Sentimenti

Dar valore ai sentimenti: esprimerli chiaramente, senza attribuire colpe né formulare valutazioni. Usare parole cosiddette “emotive”, come ad esempio ferito/a, ansioso/a, triste, entusiasta ecc..

3) Esternazione dei bisogni

Quando ci si esprime, spesso non si ha consapevolezza dei bisogni che si vogliono esternare. Una ragione di questo è che siamo cresciuti in una società in cui l’attenzione è rivolta all’esterno anziché all’interno di noi stessi e che quindi siamo staccati dai nostri bisogni. Spesso, esternare i propri bisogni era ed è tuttora considerata nella nostra società una manifestazione di egoismo e sconsideratezza, mentre invece è importante averne coscienza se si vuole arrivare a comprendere gli altri. Quando si esprimono i propri bisogni e si ascoltano quelli degli altri, si scopre ciò che ci unisce e le barriere vengono abbattute. I conflitti trovano una soluzione se entrambi gli interessati sono in grado di far propri i bisogni degli altri.

4) Esternazione di richieste specifiche

Quando si ha ben chiaro in mente ciò che si vuole ottenere dagli altri, quando si parla, si arriva alla sicurezza e alla propria responsabilità. Non è necessario esternare alcuna richiesta specifica, deve solo essere chiaro cosa si vuole raggiungere. Ognuno di noi è responsabile nel determinare le proprie reazioni nei confronti delle persone e degli eventi. Una gestione costruttiva dei conflitti ci abitua a osservare con attenzione, ci insegna a riconoscere ciò di cui abbiamo concretamente bisogno in determinate situazioni e a esprimere chiaramente questo bisogno.

Nella società digitale tutto ciò sembra molto più complesso, ma è possibile agire in questo senso anche in Rete, “negoziando” all’interno di una chat, uscendo dalle nostre bolle culturali (pregiudizi) e aprirsi all’ ascolto dell’ altro sfruttando la semplicità del web; è comunque importante conoscere le caratteristiche del nuovo contesto aumentato e  pubblico, tenere ben presente che ogni azione online ha delle conseguenze sulla nostra quotidianità.

Le parole feriscono anche se passano da uno schermo e quelle stesse parole, che diventano oggi un tutt’uno con il nostro corpo, con la mente e le nostre emozioni, si concretizzano e agiscono all’interno del  contesto virtuale, creando un ambiente di solidarietà e cooperazione o uno spazio di odio e di conflitto.

I protagonisti del nuovo processo comunicativo non sono solo i social media e il web in generale, ma sempre gli stessi attori/comunicatori di una volta, costruttori di relazioni e di conflitti: gli esseri umani con le loro fragilità, le loro paure, le loro (ir)responsabilità.

Giacomo Buoncompagni

Giacomo Buoncompagni è Dottorando di Ricerca in Sociologia  (Scienze Umane) all’Università di Macerata, Dipartimento di Scienze Politiche, Comunicazione e Relazioni Internazionali.
http://unimc.academia.edu/gbuoncompagni

Illustrazione by Cipuva su Instagram, Pelosini, 2019.

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