Pubblicato il 24 Novembre 2020
Le parole non hanno sesso, contro la moda dell’asterisco egualitario
di Luigi Pavone
In questo articolo, i lettori troveranno alcune considerazioni sull’uso del così detto «asterisco egualitario», come in «car* collegh*» o «car* tutt*». In relazione al problema del riferimento ad una moltitudine (sessualmente) mista, il lettore troverà una proposta di soluzione metalinguistica, applicabile a tutti i problemi che emergono quando il linguaggio diventa terreno di controversie politiche gender.
A detta dei parlanti che lo praticano, il motivo principale per l’uso dell’asterisco egualitario è la volontà di contrastare un presunto sessismo della lingua italiana, vale a dire una certa tendenza linguistica alla discriminazione sessuale, a vantaggio del sesso maschile, o comunque della polarità socialmente escludente maschio/femmina.
La questione del sessismo nella lingua italiana risale almeno al 1987, anno della pubblicazione del testo della linguista Alma Sabatini dal titolo «Il sessismo nella lingua italiana». Il testo conteneva anche un programma di riforma della lingua italiana, per il quale, per fare qualche esempio, non sarebbe consigliabile dire o scrivere «diritti dell’uomo», «corpo dell’uomo», «uomo primitivo», «l’uomo della strada», e così via. Meglio invece, rispettivamente, «diritti della persona», «corpo umano», «popolazioni primitive», «la gente comune». Nello stesso spirito, oggi la psicologa Francesca Fadda scrive sul suo blog che alla base della sua scelta dell’asterisco c’è «il bisogno di utilizzarlo per rivolgermi anche a chi non rientra per motivi biologici, psicologici e socio culturali nel binarismo maschile/femminile».
Secondo questa linea di pensiero, quando parliamo, siamo tutti (più o meno consapevolmente) sessisti. Da qui l’esigenza di emendamenti della lingua italiana, alcuni dei quali coinvolgono, come abbiamo visto, l’uso dell’asterisco al posto del maschile neutro nel riferimento a moltitudini miste. Come osserva la sociolinguista Vera Gheno, sulla sua pagina Facebook, «esistono persone che al momento ritengono l’esistenza dei generi maschile e femminile come un limite all’espressione di sé, anche solo nel rivolgersi a una moltitudine mista, che la norma prevede di appellare usando il maschile sovraesteso».
È possibile non trascurare il bisogno sociale di queste persone senza sconvolgere le nostre abitudini linguistiche? La proposta qui avanzata consiste in un approccio metalinguistico alle questioni gender del linguaggio in virtù del quale il problema della moltitudine mista ed altri simili non sono risolti, ma semplicemente spariscono.
Le forme grammaticali non hanno organi genitali o comportamenti sintattici riconducibili al comportamento sessuale delle specie animali. Il motivo per cui chiamiamo «maschile» un certo genere grammaticale è del tutto analogo a quello per cui i pitagorici associavano il maschio ai numeri dispari e la femmina ai numeri pari. E come noi oggi giudichiamo a dir poco bizzarra una tale rappresentazione sessuale dei numeri, così potremmo o dovremmo giudicare stravagante o primitiva l’attuale nostra rappresentazione dei generi o tipi grammaticali in termini sessuali.
Perché non parlare piuttosto, ad esempio, di «genere grammaticale primario» e di «genere grammaticale secondario» (o «genere grammaticale 1» e «genere grammaticale 2»)? I generi grammaticali possono essere considerati come insiemi di type linguistici e di regole sintattiche. Non ci sono ragioni forti per caratterizzare tali oggetti astratti con i termini «maschile» e «femminile», più di quante non ve ne siano per la caratterizzazione dei numeri pari e dispari come femminili e maschili.
Grazie al modo di parlare che stiamo proponendo, nel caso del riferimento ad una moltitudine mista non si verificherebbe più il fatto sconveniente di imporre il maschile a persone di sesso femminile, ma semplicemente quello di usare il genere primario (o genere 1) sulla base di una regola grammaticale convenzionale. Né sentiremmo più il bisogno di creare un numero di generi grammaticali corrispondente allo spettro dei possibili orientamenti sessuali delle persone.
È pur vero che il genere grammaticale dei termini riferiti ad animali e uomini segue in generale (ma non sempre) il genere sessuale dell’animale o della persona, ma ciò sarebbe un fatto (o una regolarità) con indubbie relazioni esistenziali con la comunità dei parlanti, ma senza nessuna implicazione ontologica o assiologica.
In fondo, anche in questi casi il comportamento dei generi grammaticali risulta imprevedibile: c’è «gatta» e «gatto», ma non c’è , diciamo, «tigro» e «tigre».
Luigi Pavone
Rivista di Antropologia Culturale, Etnografia e Sociologia dal 2011 – Appunti critici & costruttivi