Pubblicato il 30 Luglio 2021
Il coming out del racconto tibetano contemporaneo
di Melissa Pignatelli
Il 23 luglio 2021 presidente Xi Jinping si è recato in Tibet: è la prima volta dal 1990 che un capo di stato cinese si reca in visita ufficiale nella remota regione Himalayana. Il Tibet, una volta indipendente, è noto per la sua particolare forma di buddismo che vede nel Dalai Lama in esilio in India a Dharamsala, il suo referente religioso.
In Antichi demoni, nuove divinità (Obarrao edizioni, 2017) Tenzin Dickie ha raccolto 21 storie brevi tibetane che rivelano al pubblico l’esistenza di una forma narrativa struggente, delicata, intessuta di una saggezza così antica da penetrare osmoticamente nell’immaginario di chi legge.
Inizia così Tenzin Dickie a ricordare il quadro storico della nascita della letteratura tibetana:
“Mao inviò il suo esercito in Tibet nel 1949. Nel 1959 la brutale presa del potere da parte dei militari cinesi era completata, e la società tibetana demolita. Il giovane Dalai Lama fuggì in esilio in India, seguito da decine di migliaia di Tibetani.
Nel decennio 1966-1976, la Rivoluzione Culturale Cinese si diffuse rapidamente in tutto il Tibet. I monasteri furono distrutti, i libri bruciati e l’identità tibetana annientata. A parte alcune sporadiche eccezioni, l’insegnamento della lingua tibetana cessò del tutto. Solo con la morte di Mao e la fine della Rivoluzione Culturale, lo stato Comunista concesse alla lingua tibetana di rivivere.
Dhondup Gyal, poeta, scrittore e storico, fu il grande protagonista di questa rinascita. I suoi scritti, usciti a partire dai tardi anni Settanta, scossero il mondo tibetano. Nel 1980 e 1981 furono pubblicate le prime riviste letterarie in lingua tibetana, «Tibetan Art and Literature» e «Light Rain». Nel gennaio 1981, Dhondup Gyal diede alla stampa The Dawn of Clear and Simple Writing, una selezione di sedici tra le sue migliori poesie, saggi e racconti apparsi negli anni precedenti. […]
La mia famiglia, sia il ramo paterno che quello materno, la- sciò il Tibet quando arrivarono i cinesi e seguì il Dalai Lama in esilio. Io sono nata e cresciuta in uno degli insediamenti di rifugiati tibetani del Nord India. In funzione del nostro crescere nel Tibet-in-India, in una giovane società, una comunità in esilio che cercava di ri-radicarsi su un suolo straniero, eravamo tagliati fuori dal nostro passato storico, dalla nostra letteratura e cultura.
Naturalmente, per i tibetani cresciuti dall’altro lato delle montagne, questa frattura fu imposta dallo stato cinese. La separazione dal nostro passato letterario si accostava al fatto che la letteratura tibetana era ancora in fasce. Dunque, da entrambi i lati dell’Himalaya, crescemmo orfani della nostra letteratura. Ci eravamo persi il punto di partenza.
Per un giovane lettore, ciò significava un particolare tipo di abbandono e isolamento – la mancanza del proprio riflesso in superficie, in profondità e intorno a se stessi – un isolamento insulare di cui ci si accorge solo quando qual- cosa lo interrompe. Per me, accadde nel momento in cui lessi la bellissima poesia di Tenzin Tsundue When It Rains In Dharamsala. La lessi elettrizzata, e iniziai a scrivere una poesia. Non solo conoscevo la pioggia a Dharamsala, conoscevo anche Tsundue ed era come me. Ero sempre stata una lettrice, ma quella fu la prima volta in cui pensai che forse potevo essere anche una scrittrice.
Pema Bhum, Woeser, Jamyang Norbu, Tsering Dondrup, Tsering Wangmo Dhompa, Pema Tseden, Kyabchen Dedrol, Takbum Gyal, Pema Tsewang Shastri, Tenzin Tsundue, Bhuchung D. Sonam – questi sono i nostri scrittori oggi. Le loro opere riempiono i nostri scaffali e le loro parole echeggiano le nostre vite. Di tanto in tanto, posso cogliere un barlume di me stessa, o di qualcuno che mi somiglia molto, riflesso nello specchio. Non è una cosa da poco ciò che questi scrittori – e registi e artisti e musicisti – ci hanno dato. Solo quando l’arte ci permette di entrare nelle vite di persone come noi, con i nostri amori e le nostre perdite, gioie e dolori, speranze e disperazioni, solo allora iniziamo a dare un senso alle nostre stesse vite – a capire, apprezzare e gioire della nostra umanità – per trovare in esse la divinità.
Questi scrittori vengono dal Tibet, Cina, India, Nepal, U.S.A. e Canada, e scrivono in diverse lingue. Pema Bhum, Tsering Dondrup, Pema Tsewang Shastri, Kyabchen Dedrol, Pema Tseden, Takbum Gyal e Dhondup Tashi Rekjong scrivono in tibetano. Jamyang Norbu, Tsering Wangmo Dhompa, Tenzin Tsundue, Bhuchung D. Sonam, Tsering Lama, Tenzin Dorjee e Tsering Namgyal Khortsa scrivono in inglese. Woeser scrive in cinese. Lavorano su generi diversi. Scrivono memorie, romanzi, saggi, poesie, ma qualsiasi altra cosa facciano, tutti scrivono racconti. Il racconto è diventata una delle più importanti forme d’arte tibetana.
Ma il mondo non-tibetano è completamente ignaro del fatto che i tibetani scrivano racconti. Perciò mi piace pensare a questo libro come al coming-out del racconto tibetano. E i coming-out sono pieni di pericoli, potere e possibilità. Tra- mite queste storie a volte assurde, a volte strane e sempre commoventi, gli scrittori offrono al pubblico occidentale uno sguardo autentico sulle vite di comuni tibetani che si muovono nello spazio tra tradizione e modernità, occupazione ed esilio, storia nazionale e personale. Per i tibetani, fanno qualcosa in più. Esaminano e spiegano il nostro strazio – lo strazio per l’occupazione, l’esilio, la diaspora – e facendolo, ci donano conforto, chiarezza, e senso di appartenenza.”
Speriamo nella verità del proverbio tibetano che recita: “una spina masticata non punge più”.
Melissa Pignatelli
Tenzin Dickie, Antichi demoni, nuove divinità (Obarrao edizioni, 2017)
Rivista di Antropologia Culturale, Etnografia e Sociologia dal 2011 – Appunti critici & costruttivi