Nella storia dell’antropologia non sono mancati i tentativi di fornire una definizione del concetto di guerra. Alcuni antropologi, come ricorda Brian Ferguson, hanno insistito sulla natura politica dei conflitti. È il caso di Malinowski che ha definito la guerra come «una contesa armata fra due unità politiche indipendenti, per mezzo di una forza militare organizzata, al fine di perseguire una politica nazionale o tribale» (1941, p. 523). Oppure di Keith Otterbein, il quale ha parlato di «combattimento armato fra comunità politiche» (1968, p. 277).

Tuttavia queste definizioni presentano, a mio avviso, un problema per certi versi paradossale: per quanto estremamente generali, sono al contempo esclusive poiché estromettono, per esempio, gli aspetti economici, che in molti casi dimostrano di essere fattori preponderanti nell’eziologia dei conflitti. Le definizioni elaborate dagli antropologi sono numerose, ma voglio qui limitarmi a citare quella fornita dallo stesso Ferguson, che definisce la guerra come «un’azione di gruppo organizzata e intenzionalmente diretta contro un altro gruppo, il quale può essere o meno organizzato per una tale azione, e che faccia ricorso a un effettivo o potenziale uso della forza letale» (1984, p. 5). Non mancano certo i punti deboli in questa formulazione che, come ammette lo stesso autore, potrebbe risultare eccessivamente generica.

Tuttavia proprio la sua comprensività permette di racchiudere in un’unica categoria concettuale un ampio insieme di fenomeni e di contesti che presentano caratteristiche comuni, evitando al contempo un eccesso di flessibilità. In questo senso, la definizione di Ferguson presenta alcuni vantaggi: innanzitutto esclude la violenza individuale in quanto la guerra deve essere intesa – e questo è fondamentale – come un fatto sociale.

L’azione non deve necessariamente implicare l’uso