Pubblicato il 24 Agosto 2022

Che genere di identità?

di Alice Manfroni

Agosto 2022. Sono finalmente al mare e osservo intorno a me corpi semi-nudi, con costumi all’ultima moda, che performano generi differenti più o meno standardizzati. Come donna cisgenere (persona che si riconosce nel genere assegnato alla nascita) ho incontrato il “genere” e l’ “identità di genere” principalmente all’interno di spazi femministi e dell’accademia, ma ormai da qualche tempo, questi concetti sono usciti fuori da questi ambienti e, con molta fatica, stanno entrando nel linguaggio comune. Mi chiedo tuttavia cosa resti del “genere” dopo che viene mobilitato e risignificato in campagne politiche e mediatiche mainstream, come nel caso del dibattito dello scorso anno sul disegno di legge contro l’omo-lesbo-bi-transfobia e quali siano le potenzialità dell’”identità di genere” che, per ora, restano inespresse nella nostra società. Questioni che mi sorgono spontanee quando osservo l’utilizzo di questi termini in differenti contesti e da parte di persone con formazioni, posizionamenti e vissuti diversi. Differenze che fanno emergere, da una parte, elaborazioni teoriche e politiche complesse che difficilmente varcano la soglia del mainstream e, dall’altra, semplificazioni pericolose che spesso riaffermano visioni normative delle identità.

Il genere, come categoria distinta dal sesso biologico e aspetto della vita influenzato dal contesto socioculturale in cui si vive, permette di riconoscere il dato culturale e le disuguaglianze di potere nella costruzione delle identità sessuali. Di conseguenza, l’identità di genere viene considerata come la percezione che ciascuna persona ha di sé e che può o meno avere corrispondenza con il sesso attribuito alla nascita. Due narrazioni che lentamente si stanno affermando nella nostra società e che permettono di individuare e decostruire le relazioni di potere tra i generi. A partire da queste narrazioni, l’invito di molta letteratura queer e femminista è quello di andare oltre la visione binaria e dicotomica del sesso e del genere per osservare i processi di naturalizzazione delle gerarchie sociali. Se, infatti, andiamo a vedere la genealogia di tali nozioni, per tanto tempo si è riprodotto un rapporto oppositivo che vede da un lato la biologia e la naturalità del sesso e dall’altra la costruzione sociale e culturale del genere.

Se già alla fine degli anni Venti l’antropologa Margaret Mead aveva iniziato a studiare la costruzione della maschilità e della femminilità in alcune società del Pacifico Occidentale, il concetto di genere (gender) fa la sua prima comparsa solo negli anni Cinquanta del secolo scorso. Il Dottore Money (psicologo), nelle sue ricerche sull’intersessualità, utilizza per primo il “genere” per indicare la differenza tra l’identità sessuale e il sesso biologico. Successivamente, nel 1972, il concetto di genere appare per la prima volta in un testo sociologico, Sex, gender and society, in cui Ann Oakley lo utilizza in riferimento alla classificazione sociale del maschile e del femminile, in contrapposizione alla differenza sessuale biologica (Busoni 2016). Sempre negli anni Settanta, l’antropologa Gayle Rubin segna un punto di svolta nel dibattito sul genere con la nozione di sex/gender system nel saggio The Traffic in Women: Notes on the Political “Economy” of Sex (Rubin 1976). Per la studiosa, “il sistema sesso/genere (…) è la tendenza dei dispositivi tramite i quali una società trasforma l’istinto sessuale biologico in prodotto dell’attività umana e attraverso cui i bisogni sessuali, così trasformati, sono soddisfatti” (Rubin 1976: 24-25). Inoltre, il genere per Rubin implica anche “l’obbligo ad indirizzare il desiderio sessuale verso il sesso opposto” (Rubin 1976: 43) per cui incorpora al suo interno la norma eterosessuale. Il genere diventa, quindi, un concetto politico utile per analizzare le relazioni di potere tra uomini e donne e tra soggettività eterosessuali e omosessuali e influenzerà il dibattito politico femminista dell’epoca.

La dicotomia natura-cultura, posta alla base del rapporto sesso-genere, ha però portato a considerare il sesso come dato naturale incontestabile e universale poiché fondato sulla “natura” e, quindi, a legittimare nel campo del “naturale” gerarchie e rapporti sociali. I genitali esterni sono considerati un segno sicuro del sesso e le persone, nel contesto occidentale, sono costrette a definirsi in modo stabile e definitivo secondo due sole alternative: essere donna o essere uomo. Se inizialmente le riflessioni sul genere riprendevano tale dicotomia, con la problematizzazione dell’opposizione natura-cultura e l’emersione nello spazio pubblico di molteplici soggettività sessuali e di genere (es. persone trans, non binary, intersex), l’opposizione sesso-genere è stata messa in discussione e riconosciuta come un discorso prettamente occidentale. In tal modo si è dimostrato che considerare il sesso come “superficie politicamente neutrale su cui agisce la cultura” (Butler 2013: 13) è un discorso culturale che contribuisce ad istituzionalizzare il dimorfismo sessuale e l’orientamento binario eteronormativo come pre-culturale e universale.

Judith Butler ha infatti concettualizzato il genere come un atto performativo, non più legato a un’identità fissa, ma azione e realizzazione rutinaria (Butler 2013). L’identità di genere è quindi considerata da Butler come un’azione quotidiana, relazionale e un atto corporeo ripetuto che prova in ogni momento la nostra appartenenza alla categoria di sesso. L’idea che l’identità di genere sia un’essenza interiore legata al corpo è, per la filosofa, il frutto di un discorso prettamente pubblico e sociale che fabbrica l’identità come qualcosa di stabile, interno all’individuo e connesso al sesso biologico. Secondo la prospettiva performativa, il genere esiste invece grazie alla ripetizione di atti performativi che permettono anche di elaborare nuove modalità di soggettivazione e nuove identità provvisorie sganciate dal sesso biologico (Butler analizza in particolare le esperienze drag).

In questo modo, si passa a una ridefinizione totale del rapporto sesso-genere. La stessa divisione binaria del sesso appare ora essere una costruzione sociale, un discorso culturale che legittima le relazioni sociali tra i generi naturalizzandole nel sesso biologico. La categoria di sesso è quindi essa stessa influenzata dai discorsi culturali e politici della nostra società che riconosce l’esistenza di solo due tipi di corpi sessuati, binari e complementari. Da questa prospettiva, cade l’idea che i generi siano solamente due, opposti tra loro e destinati ad attrarsi. Questione che è stata poi affrontata anche nel campo della biologia, in cui si è dimostrato che le combinazioni dei sei fattori che compongono il sesso biologico (cromosomi sessuali, ormoni sessuali, genitali esterni, genitali interni, fenotipi sessuali e gonadi) sono molto variabili e rendono di fatto insufficiente la differenza cromosomica XX-XY per la definizione del sesso femminile e maschile (Ribeiro Corossacz 2015).

A questo punto, quindi, vediamo come l’identità di genere sia una categoria dalle potenzialità trasformative che minano le norme della società connettendo genere e sessualità in modi alternativi al binarismo. Da questa prospettiva, abbiamo l’opportunità di decostruire la naturalizzazione delle gerarchie sociali tra i generi per costruire e affermare visioni meno stabili dell’identità. Dopo questa approssimativa genealogia del “genere”, invece di continuare a spacchettare le identità e a considerare, ad esempio, il sesso, il genere e l’orientamento sessuale (ma anche la “razza”, la classe, l’età) come categorie separate che non dipendono le une dalle altre, sarebbe utile vedere le connessioni tra queste categorie nelle nostre esperienze quotidiane. Come scrive Valeria Ribeiro Corossacz:

“Il modello oppositivo “sesso vs genere” veicola l’idea che il sesso è immutabile – natura – e che il genere è malleabile – cultura. (…) Se seguissimo un approccio in cui la natura e la cultura sono elementi uniti in un processo di mutua definizione, la distinzione tra sesso e genere verrebbe ad essere meno importante, o forse addirittura inutile” (Ribeiro Corossacz 2015: 138-139).
Un invito che forse può aiutare a riflettere sui significati che diamo al sesso e al genere nella nostra vita quotidiana e ad interrogarci sulle potenzialità trasformative delle nostre stesse identità per riaffermare il valore politico della categoria di genere.

Alice Manfroni

Immagine: Pascale Marthine Tayou Shanghai Colonial 2019, wooden sculptures, variable dimensions. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio, courtesy Galleria Continua

Riferimenti bibliografici

Busoni, M. (2015), Genere, sesso, cultura. Uno sguardo antropologico, Carocci, Roma.

Butler, J. (2013), Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, Laterza, Bari – Roma.
Ribeiro Corossacz, V. (2015), “Sesso e genere, oltre natura e cultura” in Cutolo, A., Grilli, S. e Viti, F. (a cura di), Tempo, persona e valore, Argo, Lecce, pp. 127-144.
Rubin, G. (1976), “Lo scambio delle donne. Una rilettura di Marx, Engels, Lévi-Strauss e Freud” in Donna Woman Femme n. 1, Coines Edizioni, Roma, pp. 23-65.

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