Pubblicato il 27 Agosto 2022

Sesso e pornografia in Giappone 

di Federico Giuliani

In Giappone il sesso e la sessualità sono inseriti in una griglia valoriale-culturale unica nel suo genere, sicuramente collocata agli antipodi rispetto alla concezione occidentale dei due concetti. “Un attento studio sulla nozione giapponese di pudore – scriveva la scrittrice americana Alice Bacon, consulente straniera del governo giapponese nel periodo Meiji, a cavallo tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 – mi ha portata alla seguente conclusione: secondo le consuetudini giapponesi, qualsiasi esposizione di parti del corpo che sia puramente dettata da esigenze connesse alla salute, all’igiene personale o a una maggiore comodità di movimento durante lo svolgimento di un lavoro necessario è permessa e ritenuta assolutamente castigata.

Se però tale esposizione, anche solo accennata, avviene per puro esibizionismo, allora viene considerata sconveniente al massimo grado”. Osservazioni molto simili le ritroviamo negli scritti dell’orientalista Edward Morse: “La vista delle nostre donne che ballano il valzer in abiti scollati, o i baci in luoghi pubblici, perfino quelli con cui un marito saluta la moglie, e molte altre nostre azioni fanno sì che i giapponesi ci vedano come barbari”. Non è certo un mistero: per molti cittadini giapponesi, le effusioni in pubblico sono ancora uno shock. Eppure, allo stesso tempo, gli stessi nipponici non vedono niente di intimo o scioccante nell’espletamento delle funzioni corporali.

Cerchiamo di spiegare questa particolare caratteristica del tutto sui generis facendo qualche esempio. Una delle cose che più colpisce quando visitiamo una megalopoli nipponica, e proviamo a dare un’occhiata alle pubblicità esposte sulle vetrine dei negozi, sui treni, o addirittura in tv, è la totale assenza di ammiccamenti di carattere sessuale. In altre parole, in Giappone non si ricorre alla forza del desiderio sessuale per vendere più prodotti. A ben vedere, nell’abbigliamento di questo popolo, ma anche in buona parte della loro quotidianità, si avverte un senso di innocenza che in Occidente manca del tutto.

“In Giappone il nudo si vede, ma non si guarda”, scriveva agli inizi del XX secolo un caporedattore del giornale Japan Mail. Attenzione però, perché oltre a tutto questo c’è da considerare il rovesciamento della medaglia. Tanto i giapponesi sono pudici in pubblico, tanto il corpo umano viene esibito in forme estreme di sessualità nell’industria pornografica. In profondità, la pudicizia mostrata in superficie lascia spazio a situazioni che per un occidentale si trovano ai limiti del sopportabile. Un paio di esempi quotidiani: in molti negozi e minimarket il materiale pornografico in vendita è esposto in bella mostra, alla portata di qualsiasi cliente.

La maggior parte degli alberghi giapponesi, inoltre, offre nelle stanze una infinità di canali pornografici a pagamento, mentre gli equivalenti nipponici di giornali come il Sun, o tabloid simili, sono spesso corredati da fumetti con uomini e donne che fanno sesso. Per quale motivo? Per i giapponesi il sesso è un bisogno umano, e come tale è un argomento neutro. È un fatto naturale, ed è considerato “normale” farlo con persone del sesso opposto o dello stesso sesso. La pornografia, diffusa fin dall’VIII secolo, è considerata un’arte al pari della cucina o della calligrafia. Il comportamento sessuale, invece, è frutto di un apprendimento, proprio come i giapponesi imparano, nel corso della loro vita, a suonare uno strumento o realizzare la cerimonia del tè.

Le donne giapponesi utilizzano il loro corpo come meglio credono, per cui il mestiere della professionista del sesso non è considerato vergognoso, né vi è una condanna morale della prostituzione. Possiamo affermare che qui i rapporti sessuali non hanno alcuna dimensione spirituale. “Il sesso è soltanto sesso e, a differenza della tradizione cristiana, non è il simbolo della nostre unione con Dio o con l’altro”, ha scritto l’antropologo Alan Macfarlane.

In Giappone è assurdo pensare al corpo e ai suoi utilizzi come a espressioni di bene o male in senso religioso, così come il giudizio umano è assente da tutte le altre attività umane, come il nutrirsi o il defecare (benché entrambe siano soggette a norme di decenza). Il sesso a pagamento non è altro che un banalissimo momento della vita quotidiana di un cittadino. Poi, certo, accanto alla dimensione culturale c’è spazio per le considerazioni economiche. L’industria del sesso rappresenta per il Giappone uno dei settori più remunerativi. L’industria del porno Made in Japan ha sempre fatto registrare numeri da capogiro e, secondo alcune stime, varrebbe oltre 20 miliardi di dollari, con guadagni di 24 bilioni all’anno.

Nel 2019, in Giappone uscivano oltre 5.000 titoli all’anno, quindi circa 14 pellicole pornografiche al giorno. Tuttavia in Giappone vigono leggi rigidissime in materia di moralità. Fino alla metà degli anni ’90 era considerato osceno mostrare peli pubici e genitali degli adulti, anche all’interno della stessa pornografia. Resta in atto l’articolo 175 del codice penale del 1907, secondo cui “una persona che distribuisce, vende o visualizza in pubblico un documento osceno, disegno o altri oggetti deve essere punita con la reclusione con lavoro per non più di 2 anni, una multa di non più di 2.5000.000 yen”.

Perché, dunque, stando così la legge in Giappone si vendono una marea di anime e manga hentai (pornografici) e l’industria del sesso va a gonfie vele? Come spiega dettagliatamente il giornalista Jake Aldestein, in Giappone c’è una sottile linea d’ombra. Le autorità tollerano ogni allusione sessuale fin tanto che non vi sia un effettivo rapporto sessuale tra i soggetti. I fumetti e i film proponendo un rapporto completo, sono censurati. Nei locali e nei quartieri appositi, le ragazze non possono per legge offrire un rapporto completo ai clienti, ma possono concedersi in perversioni di ogni tipo, in situazioni ed esperienze che vanno dai parchi tematici sessuali al feticismo.

Federico Giuliani

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