Pubblicato il 22 Ottobre 2022

Bretagna, la penisola alla fine della terra

di Maurizio Karra

«I bretoni nascono con l’acqua del mare intorno al cuore, affinché l’acqua salata non abbia mai il sapore delle lacrime», recita un vecchio proverbio del popolo bretone. La loro terra, la Bretagna (in lingua bretone “Breizh”, ma chiamata dai suoi abitanti anche “Armorica”, da ar, sopra, e mor, mare), è una penisola dell’estremo nord-ovest del territorio francese, affacciata sull’Atlantico e sul canale della Manica. Ma questo territorio non coincide oggi con i confini amministrativi dell’omonima regione francese, una delle attuali tredici regioni in cui è suddiviso il territorio francese in base alla riforma amministrativa del 2015 del presidente François Hollande: la sua estensione, infatti, risulta minore di quanto non lo sia sempre stato il territorio storicamente noto come Bretagna, e non è un caso….

Una terra dai confini di sale

Un tempo, infatti, quella che oggi definiamo Bretagna si estendeva a sud-est fino alla Loira, comprendendo così anche l’attuale territorio amministrativo del dipartimento della Loira Atlantica (oggi invece compreso nella regione francese dei Paesi della Loira), dove si trova anche la città bretone storicamente più importante, Nantes. Questo territorio, prima della conquista romana operata nel 56 a.C. da Giulio Cesare (che l’incluse alla Gallia transalpina), era popolato da numerose tribù di origine celtica, i cui nomi, presenti anche nel “De bello gallico”, si sono spesso conservati nei toponimi moderni delle città: abrincati (Avranches), baiocassi (Bayeux), cenomani (Le Mans), coriosoliti (Corseul), diablinti (Jublains), lexovii (Lisieux), namneti (Nantes/Naoned), osismi (Ouessant), redoni (Rennes/Roazhon) e veneti (Vannes/Gwened); tribù che, controllando anche i traffici marittimi verso l’odierna Gran Bretagna, dovevano essere dai romani preventivamente domati e sconfitti prima che iniziasse il loro assalto alla stessa Britannia oltre la Manica.

Il mare è comunque il vero protagonista della storia e della vita quotidiana di questa terra, che nella sua estremità occidentale segna anche uno dei confini del continente europeo (il “finis terrae”, da cui prende il nome la sua parte più a ovest, il dipartimento del Finisterre); una terra dalle maree potenti e a volte drammatiche, alimentate da venti impetuosi, causa di tanti naufragi avvenuti sulle coste, a ridosso delle falesie che si succedono da ogni parte, da nord a sud, guardate a vista da sentinelle di pietra immobili da tempo immemorabile: si tratta dei famosi fari di Bretagna, che sembrano vigilare imperturbabili il profilo tormentato delle coste, stravolte più volte al giorno dal gioco crudele e nel contempo strabiliante delle maree. Quando il mare si ritira al largo, la bassa marea permette di scoprire scogli e sabbie a volte nere come il carbone che altrimenti non emergerebbero, mentre le barche, accuratamente legate con grosse funi agli ormeggi, restano a secco per decine e decine di metri, inclinate su un fianco e quasi sospese nella bruma della luce fioca dell’alba o della sera tra la terra e l’orizzonte, in attesa che il mare che si è allontanato per decine o a volte centinaia di metri torni prepotente con le sue onde a riprendere in pochi minuti possesso di tutto.

I bretoni sostengono con un po’ di esagerazione che le maree avanzano alla velocità di un cavallo al galoppo, dato che crescono e defluiscono alla velocità di circa dodici chilometri l’ora; da questo fenomeno sono riusciti addirittura a produrre energia, imbrigliandola nella centrale elettrica costruita presso l’estuario del fiume Rance, da cui viene tratto quasi il 90% dell’elettricità prodotta in Bretagna. Ma da queste parti il mare è qualcosa di più di un semplice elemento naturale: è come se con la sua vita, i suoi dolori, le sue storie, sia entrato quasi geneticamente nel vissuto della gente, nei meandri dei luoghi, nella memoria delle leggende e dei miti che ancora oggi alimentano la coscienza collettiva.

Nell’area più interna di questa fredda e umida penisola, dove il sole riesce solo pochi giorni l’anno a bucare la coltre di nuvole basse che si stagliano all’orizzonte, il paesaggio è invece ovunque tormentato da una scala infinita di grigi, dovuti anche alla costante presenza di rocce granitiche, che non concedono molto alla tavolozza dei colori. È soprattutto qui che si possono toccare con mani le tradizioni religiose che prendono corpo nelle grigie pietre dei suggestivi Calvari e nelle manifestazioni dei pardons, dedicate ai santi locali. Al di là degli appezzamenti di terreno coltivati a cereali e frutta e dei pascoli dove vivono soprattutto bovini da latte e dove la popolazione vive prevalentemente sparsa in piccoli centri e in poderi rurali divisi fra loro da siepi o da filari di alberi, le brughiere e le foreste che coprono una parte preponderante del territorio appaiono grigie come le rocce che emergono dalla terra e con le cui pietre sono costruite da secoli le case dei ricchi e dei poveri, compresi le chiese e gli edifici più importanti di ogni centro abitato, piccolo o grande che sia.

Che si viva sulle coste o che si viva all’interno di questa penisola, va detto che da queste parti è molto forte il legame della popolazione con la natura; e i lenti ritmi, a misura d’uomo, della vita del popolo bretone permettono ancora di più di fare emergere quella che ormai da decenni è considerata la moda del “new-age”, qui in un certo senso da sempre assai viva, a tal punto da riuscire a proliferare incuneandosi negli usi e nei costumi di gente fiera del proprio passato, profondamente attenta all’ambiente, gelosa di una cultura che nessuno vuole si perda, ma particolarmente generosa nell’accoglienza degli altri. Forse non c’è una terra altrettanto affascinante e pregna di storia, di tradizioni e di incantesimi in grado di materializzarsi agli occhi di chiunque come questa. Che sia merito della Bretagna o dei suoi abitanti non è dato sapere; forse perché i bretoni non esisterebbero, così come sono, senza la Bretagna; forse perché, pur appartenendo al territorio francese da secoli, nessun bretone si è mai ritenuto un “francese”, né mai questa terra è stata davvero …domata nemmeno nei momenti più duri del centralismo statale di Parigi, né dai re né dai presidenti delle varie “repubbliche” che ne hanno preso il posto.

La storia lo evidenzia chiaramente e ne è testimonianza la bandiera nazionale bretone (la “Gwenn ha du”), che rappresenta il simbolo della loro identità storica, mai venuta meno. La contraddistinguono nove bande orizzontali alternativamente nere e bianche, simbolo dei nove paesi originari del suo territorio e poi dei suoi nove vescovati, accompagnate da undici code di ermellino nere nello spazio bianco presente nell’angolo sinistro in alto (similmente alla bandiera degli Stati Uniti dove nello stesso spazio sono presenti le cinquanta stelle simbolo dei suoi cinquanta stati). Le quattro bande bianche rappresentano i quattro paesi della bassa Bretagna, cioè del territorio che occupa la parte occidentale della regione bretone, sostanzialmente i paesi di origine celtica: Bro-Leon (Léon), Bro-Gernev (Cornouaille), Bro-Wened (Vannetais) e Bro-Dreger (Trégor); le cinque bande nere rappresentano invece i cinque paesi dell’alta Bretagna, che occupano la parte orientale della penisola, quella confinante con la Normandia, cioè i paesi di origine gallica: Bro-Sant-Brieg (Saint-Brieuc), Bro-Zol (Dol), Bro-Sant-Maloù (Saint-Malo), Bro-Roazhon (Rennes) e Bro-Naoned (Nantes).

Non deve apparire strano, quindi, se i confini della Bretagna, che si allungano soprattutto sul mare e che invece non sono definiti chiaramente nella parte, sicuramente minoritaria, dell’interno (al di là delle odierne divisioni amministrative regionali), per i bretoni siano semplicemente dei “confini di sale”, come recitano i versi di una delle più famose canzoni di Dan Ar Braz, che insieme ad Alan Stivell è oggi considerato il più importante cantore bretone contemporaneo:

Confini di sale, confini di sabbia,
Terra dei mari, mia terra verde.
Confini di sale, confini di sabbia,
Piena di sogni, nostra terra verde.
Giorni di sfortuna e giorni di dubbio
Sono andati, andati con la marea.
E giorni di speranza, per rimettersi su
Verranno, laveranno via il blu.
È tutto, dipende tutto da te.
Confini di sale, confini di sabbia,
Terra di credenze, in croci e pietre.
Confini di sale, confini di sabbia,
Di preghiera infinita lanciata attraverso i cieli.
Per giorni migliori e ore migliori
Dobbiamo restare in piedi,
Lì per i nostri figli, lì per la terra,
Lì per ogni uomo.
È tutto, dipende tutto da te.

I bretoni

Ma quanti sono i bretoni? Sicuramente una piccola minoranza rispetto al resto della popolazione francese, che conta sessantotto milioni di persone: circa tre milioni di abitanti, se si considera la regione amministrativa della Bretagna; poco più di quattro milioni, se invece si prende come riferimento la regione “storica”, comprendente (come già detto) anche Nantes e il resto della Loira Atlantica.

L’area maggiormente popolata è quella costiera, detta “Armor” (In bretone la parola armor significa “mare”), che si estende su più di duemila chilometri tra falesie, spiagge e suggestivi fiordi (in bretone detti “aber”), che si incuneano all’interno del territorio per chilometri; tradizionalmente è questa l’area più ricca grazie alla pesca, alle industrie conserviere e al commercio marittimo, oltre che (soprattutto negli ultimi anni) grazie al turismo; sulla costa o in prossimità di essa sorgono molte delle città più importanti (Vannes, Concarneau, Quimper, Douarnenez, Brest, St-Brieuc, St-Malo, Lorient); ben poco abitate sono invece le numerose isole e isolette che si stagliano al largo nell’area atlantica o nel canale della Manica (Île de Groix, Îles de Glénan, Île de Sein, Îles Molén, Île d’Ouessant, Île de Batz, Île de Bréhat, ecc.).

Meno di un terzo della popolazione occupa invece i territori dell’interno, detti “Argoat” (in bretone argoat significa “foresta”, “campagna”), dove pure si trova l’attuale capoluogo amministrativo della regione, Rennes, che è anche la città più popolosa, dato che conta duecentoquindicimila abitanti, mentre l’antica capitale ducale, Nantes, che conta oltre trecentomila abitanti, si trova in prossimità dell’estuario della Loira, a una trentina di chilometri dal “suo” porto naturale sull’Atlantico, St-Nazaire. In questo territorio interno, caratterizzato economicamente dalle attività agricole e dall’allevamento, non vi sono vere e proprie montagne, dato che i rilievi maggiori non raggiungono i quattrocento metri di altitudine (circa trecento metri il Menez Bre, poco di più il Ménez-C’homm, circa trecentottanta metri il Menez Mikael e il Roc’h Trevezel). È proprio da queste parti che vive l’animale simbolo della Bretagna, l’ermellino, entrato prepotentemente, come accennavamo, fra i simboli della bandiera bretone. Ed è questo il territorio caratterizzato dalle tradizioni più antiche, essendo rimasto quasi isolato per secoli, formato da piccole comunità che sono state quindi in grado di preservare ancor di più di quelle costiere, più aperte agli scambi commerciali e ai contatti con gli altri popoli vicini, il paesaggio naturale e antropico, oltre che il loro patrimonio di tradizioni e credenze, tutte da scoprire.

La lingua

Accennavamo alla lingua bretone. È sbagliato affermare che i bretoni parlino tutti il bretone, che (detto subito per inciso) non è affatto un dialetto francese né ha origini neolatine. Esistono infatti in tutta la Bretagna aree di bilinguismo dove la maggior parte degli abitanti parla tranquillamente entrambe le due lingue (il bretone e il francese), in particolare nella parte nord-occidentale; vi sono aree in cui la popolazione parla ancora un po’ di bretone all’interno delle famiglie ma usa poi il francese in tutti i contatti esterni (in Francia l’istruzione scolastica è stata resa obbligatoria da una legge del 1882 e gli insegnamenti sono legati al francese); e infine ci sono aree, in gran parte della Bretagna orientale, dove di fatto pochi o nessuno comprendono più la lingua bretone, in favore semmai di una parlata locale di origine gallica divenuta di fatto un dialetto. In un sondaggio realizzato pochi anni fa si evince che il bretone annovera poco più di centosettantamila parlanti attivi all’interno dei cinque dipartimenti della Bretagna storica, quindi appena il 5% della popolazione bretone totale, e di questi pare che solamente trentacinquemila siano le persone che parlano il bretone quotidianamente; a metà del ‘900 erano almeno duecentomila e per questo la lingua bretone è stata classificata “seriamente a rischio” dall’Unesco nell’Atlante delle lingue in pericolo nel mondo.

Ma cos’è il bretone? È una lingua del ceppo celtico derivante dall’antico brittonico, la lingua parlata dai nativi della Britannia nel momento della conquista romana dell’isola al di là della Manica; si tratta di una lingua che presenta evidenti similitudini con l’attuale gallese e con la lingua cornica (“kernowek”), parlata ancora oggi da una minoranza della popolazione che vive nell’estremo lembo occidentale della penisola inglese della Cornovaglia. È proprio con il cornico che si evidenzia il legame linguistico più forte, evidenziato soprattutto nel lessico, mentre nella grammatica il bretone se ne discosta maggiormente a causa soprattutto del contatto col francese e di tutti i tentativi governativi di imporre comunque la lingua nazionale alle regioni francesi in cui erano sopravvissute lingue diverse (come l’occitano nel sud della Francia o il basco nei territori dei Pirenei atlantici confinanti con la Spagna settentrionale).

La diffusione della lingua bretone nella Bretagna francese si ebbe soprattutto a partire dal V secolo d.C. in seguito alle migrazioni di popolazioni della ex provincia romana della Britannia (l’Inghilterra odierna) verso la vicina penisola armoricana, facilmente raggiungibile con l’attraversamento del canale della Manica, e in particolare quando iniziarono i tentativi d’invasione della terra d’Albione da parte degli angli e dei sassoni, popolazioni di stirpe germanica che alla fine ebbero la meglio sulle popolazioni locali, conquistando facilmente soprattutto le terre al di sotto del vallo romano costruito dall’imperatore Adriano per difendere gli insediamenti romani della Britannia proprio dalle ancor più bellicose tribù celtiche del nord.

A sua volta il bretone è ovviamente imparentato anche con altre lingue del ceppo celtico come il gaelico scozzese e irlandese, lingue nazionali di Scozia (soprattutto nelle Highlands) e dell’isola d’Irlanda (parlato soprattutto nella Repubblica d’Irlanda e nelle contee meridionali e occidentali dell’Irlanda del Nord, che fa parte del Regno Unito di Gran Bretagna), nonché con il celtiberico, ancora oggi in parte parlato nella sua evoluta forma moderna in Galizia, nelle Asturie e in Cantabria, tutte regioni della Spagna settentrionale.

Nonostante il forte centralismo politico-amministrativo della Francia, Parigi non ha potuto fare a meno di far propri i principi di azione del Consiglio d’Europa che trovano il loro fondamento nell’articolo 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo del 1950. Anche se con molto ritardo rispetto ad altri Paesi dell’Unione, il governo francese ha quindi consentito nel dicembre 2004 al Consiglio Regionale della Bretagna di riconoscere ufficialmente sia il dialetto gallico che la lingua bretone come “lingue della Bretagna” accanto alla lingua nazionale francese. Ma l’insegnamento del bretone è avvenuto solo in alcune scuole della Bretagna, e per giunta come materia opzionale, a parte le scuole private confederate “Diwan”, nate nel 1977 per proporre l’intero ciclo di studi in bretone, dalla materna alla superiore: in questa confederazione di scuole, sparse su tutto il territorio (in questo momento sono una trentina le scuole di questo tipo in tutta la Bretagna), dai due ai sei anni il bretone è l’unica lingua di insegnamento; all’età di sette anni e mezzo il francese viene introdotto durante due delle ventisei ore di insegnamento; quando gli studenti hanno dieci anni, le ore di insegnamento del francese passa a sei ore e quindi da quel momento viene insegnato allo stesso livello del bretone.

La funzione sociale della musica e della danza

Non vi è, probabilmente, altra terra al mondo nella quale la musica e la danza abbiano avuto storicamente un ruolo così importante nella conservazione e nella trasmissione della cultura come accaduto fra i bretoni. Si potrebbe azzardare perfino l’idea che musica e danza abbiano rivestito il ruolo che in tanti altri casi è stato legato strettamente alla letteratura, cioè alla parola (orale e/o scritta). La musica è servita, infatti, per “contenere” in molte occasioni le parole, cadenzandone il ritmo e agevolandone la trasmissione di padre in figlio fino all’età romantica, allorquando sono iniziate le trascrizioni dei testi orali da parte degli intellettuali dell’epoca; nel contempo la danza, espressione culturale della collettività per antonomasia, ha ulteriormente facilitato la sopravvivenza di testi e musiche nel corso di tutte le occasioni di incontro o in corrispondenza di specifici eventi legati al ciclo della vita (nascite, fidanzamenti, matrimoni, ecc.) o del lavoro (semina, raccolta, ecc.) o del culto (Settimana Santa, feste di santi patroni, ecc.).

Di fatto, ben più che altrove, in Bretagna la musica (cantata o no) e i balli sono sempre stati un’espressione di identità per la società e il popolo, preservando i tratti tipici anche delle più piccole comunità: hanno seguito le diverse fasi della vita delle persone e ne hanno strutturato l’organizzazione, anche se non sempre danzare, suonare e cantare si limitava a un puro divertimento: potremmo dire che erano la manifestazione dell’ordine sociale popolare che, attraverso un’attività collettiva, esprimeva lo status di ogni individuo all’interno della comunità di appartenenza.

Per esempio, è ben risaputo che in Bretagna il lavoro delle campagne, che accomunava la maggior parte della popolazione (nonostante i centri abitati più popolosi fossero in corrispondenza delle coste), sia sempre stato storicamente legato all’abitudine dei contadini di aiutarsi reciprocamente e gratuitamente; il modello feudale del periodo medievale e dei secoli successivi che il resto dell’Europa ha conosciuto sotto varie dominazioni e con vari sovrani o signori locali da queste parti era quasi del tutto sconosciuto. E così, chi lavorava nei campi aiutava gli altri e veniva aiutato in caso di bisogno nell’ambito di una coscienza di gruppo che potremmo definire quasi di stampo cooperativistico; in pratica chi aveva beneficiato di un aiuto da parte di altri contadini si sdebitava organizzando una festa e invitandoli a partecipare con le loro famiglie, legando così all’impegno lavorativo un ulteriore momento di socialità, oltre a quelli calendarizzati dalla tradizione.

Ovviamente c’erano poi le ricorrenze familiari e quelle religiose, ciascuna delle quali legata a una particolare danza tradizionale e a un particolare fenomeno musicale, più o meno spontaneo: le danze dette “d’onore” erano praticate con un protocollo sempre uguale in occasione per esempio dei matrimoni, dal momento dell’uscita dalla chiesa degli sposi fino al banchetto nuziale, soprattutto in Cornouaille e nel Vannetais; le danze “ricreative” erano invece praticate più liberamente durante le feste di piazza, nel corso delle quali si cantava e si ballava tutti insieme (uno dei momenti peculiari di questo genere di eventi era durante le fiere contadine e del bestiame); e naturalmente ci si riuniva per cantare e ballare alla fine delle cerimonie processionali come i “pardons”, processioni religiose o veri e propri pellegrinaggi organizzati in genere in una data compresa tra la fine della primavera e l’inizio dell’autunno da ogni paese in onore del santo patrono, della Vergine Maria (soprattutto in occasione della Festa dell’Assunzione), o di Sant’Anna, patrona di tutta la Bretagna.

Molte di queste pratiche musicali si sono conservate ancora ai nostri giorni, anche se ovviamente la disaffezione (soprattutto verso la pratica del ballo tradizionale) dagli anni ’70 e ’80 del secolo scorso ha finito con l’investire anche la Bretagna interna, dove fino a quel momento le tradizioni si erano perfettamente conservate, e progressivamente si sono rarefatte le occasioni spontanee di incontro fra la gente, rimanendo vive spesso solamente le manifestazioni a marcato carattere folclorico, che comunque riescono ancora ad attirare, a seconda dei casi, centinaia se non migliaia di persone (sia locali che turisti). Al contrario, un esempio del perpetuarsi delle tradizioni musicali bretoni rimangono ancora oggi i “fest noz” (letteralmente: feste notturne), dove il protagonista principale è il ballo popolare, soprattutto in estate. Queste feste da ballo, che nel resto dell’anno si svolgono al chiuso, nelle “maison pour tous” (centri sociali) o nelle palestre delle scuole, esplodono all’aperto nei mesi più caldi, tempo permettendo, investendo anche le persone non del luogo in un clima di partecipazione attiva in cui i bretoni riescono a coinvolgere tutti i presenti. D’altronde, le danze bretoni si fanno sempre in gruppo, tenendosi a braccetto e creando dei serpentoni che si snodano attraverso la piazza (o la pista da ballo, se al chiuso); e anche quando sono balli di coppia, è normale scambiarsi continuamente partner mescolandosi fra più coppie.

La danza bretone è accompagnata da musicisti e cantanti che suonano e cantano in duo, trio, quartetto e, a volte, anche in gruppi più grandi. Gli strumenti acustici tradizionali sono spesso il cardine di queste occasioni di vita sociale, sebbene alcuni gruppi abbiano adottato negli ultimi anni anche strumenti estranei alla tradizione bretone, comprese chitarre e altri strumenti elettrici; ma i più diffusi rimangono la fisarmonica e, immancabilmente, due strumenti a fiato tipicamente bretoni: il “biniou”, che appartiene alla famiglia delle cornamuse (evidenziando la sua comunanza con le cornamuse scozzesi e della Cornovaglia), e la “bombarde”, uno strumento detto “ad ancia”, simile all’oboe, ma più corto di questo; il flauto traverso in legno, ben più noto nell’ambito della musica popolare europea, è invece entrato in Bretagna solo di recente, reso popolare da Jean-Michel Veillon e dalla contaminazione con altre tradizioni musicali anche di area celtica.

Il biniou e la bombarde sono suonati da una o più coppie di musicisti (“bagad”). Senza almeno un duo di questo genere si può dire che non esiste nessuna musica bretone: essi suonano in genere insieme la stessa melodia ma con un’ottava di differenza; spesso, tuttavia, la bombarde interpreta il brano o la strofa musicale solo una volta, mentre il biniou (grazie alla sua riserva d’aria) continua a suonare e subentra anche da strumento solista ripetendo il pezzo, spesso il ritornello del brano cantato, una seconda volta.

Anche la fisarmonica è sempre stata molto popolare in Bretagna, so-prattutto per le danze di coppia (“dañs kof a kof”). Soprannominata “boèze” o “pouche” nell’area orientale e “boest an diaoul” (letteralmente “scatola del diavolo”) nell’area più tradizionalista della penisola, quella occidentale, ha faticato inizialmente a trovare un posto tra gli strumenti più antichi, in uso già dal XV secolo. Ma negli ultimi decenni anche la fisarmonica ha trovato un posto di primo piano e oggi è difficile trovare un piccolo gruppo di musicisti nel quale manchi.

Un altro strumento tipico della musica bretone, come in tutta l’area celtica, è poi l’arpa, particolarmente in uso nella Bretagna ducale a corte nei secoli d’oro di questa terra, essendo uno strumento molto sofisticato e in grado di essere suonato solo da musicisti esperti. Emersa dall’oblio in cui era scivolata alla fine dell’800, in pieno periodo romantico, attraverso un movimento “neo-druidico”, riappare oggi per far rivivere le antiche tradizioni, soprattutto da quando a metà del ‘900 Alan Stivell (nome d’arte in bretone di Alain Cochevelou) e suo padre Georges Cochevelou lavorarono per la sua reintroduzione e lo stesso Georges Cochevelou costruì la prima moderna arpa bretone, la “telenn gentañ”, strettamente imparentata con quella gaelica, tornata in auge contemporaneamente (e ancor più prepotentemente) in tutta l’Irlanda, di dimensioni più piccole rispetto a quella in uso nel resto dell’Europa .

Di uso più recente è l’introduzione del violino nell’ambito dei gruppi musicali bretoni di maggiore dimensione. Anche in questo caso fu merito di Alan Stivell il suo uso abituale per accompagnare le sue composizioni e gli arrangiamenti di vecchie canzoni popolari da lui riportate in auge fin dai primi album, incisi fra gli anni ’60 e ‘70 del secolo scorso (“Telenn Geltiek-Harpe celtique” e “Reflets”). Nel 1975, il 26 e 27 novembre egli tenne due memorabili concerti a Dublino dalla cui sintesi verrà tratto un altro album live di grande successo, “E Dulenn” (a Dublino). La dichiarazione di appartenenza identitaria alla Bretagna di Alan Stivell è contenuta nel brano “Délivrance” (liberazione), inciso in francese all’interno di questo disco, nel quale la Bretagna è vista come centro del mondo abitato e terra di accoglienza. Ecco, qui di seguito, la traduzione del bellissimo testo:

È venuto il tempo della liberazione.
Lungi da noi ogni idea di vendetta,
manterremo la nostra amicizia con il popolo di Francia.
Ma abbatteremo i muri vergognosi
che ci impediscono di guardare il mare,
le torri di guardia che ci vietano i nostri fratelli
del Galles, di Scozia, d’Irlanda.
E noi, il cui nome noto ai gabbiani e ai cormorani
è stato bandito da tutti i linguaggi umani,
da tutte le biblioteche, da tutte le carte geografiche,
apriremo i nostri cuori
di agricoltori e pescatori a tutti i popoli
del pianeta Terra.
E offriremo i nostri occhi al mondo.
È pretenzioso crederci uguali?
È troppo chiedere di voler vivere?
Noi faremo piovere sul mondo martoriato,
perché pulisca il sangue untuoso di cui si nutrono
i cosiddetti potenti,
e dia da bere agli assetati di giustizia.
E le foglie ricresceranno dalla Bretagna alla Spagna,
dal Mali al Cile, dall’Indocina alla Palestina.
Bretagna, centro del mondo abitato, sarai
un rifugio per gli uccelli cacciati e coperti di bitume,
per le donne, in carcere, torturate,
per i vecchi bombardati.
Terra celtica, al crocevia dei popoli del nord e del sud,
ai confini del vecchio e del nuovo mondo,
alle frontiere della terra e del mare,
ai margini del mondo visibile
e del mondo invisibile…

Del 1976 è l’album “Trema’n inis” (verso le isole), consacrato ai grandi poeti di Bretagna e a suo padre. Nel 1977 Alan Stivell mette in musica l’intera storia della Bretagna in un altro importante album intitolato “Raok Dilestra” (prima di approdare). Nel 1980 si ha quella che i critici definirono la sua svolta sinfonica, grazie a un disco doppio che resta forse il suo lavoro musicale più famoso, “Symphonie Celtique” (sinfonia celtica), registrato con una formazione spiccatamente rock e nel contempo con un insieme di bombarde e cornamuse accompagnate da una vera orchestra sinfonica.

A mano a mano che gli anni passavano, diffondendo la musica bretone (come quella irlandese) in tutta l’Europa, molti altri strumenti sono stati aggiunti a quelli tradizionali, anche per l’allargamento dei corpi orchestrali che hanno accompagnato i musicisti più importanti nei loro concerti e nella registrazione dei loro dischi. Ma, oltre a strumenti moderni, sono stati recuperati dalla storia culturale del passato anche altri strumenti non più in uso da tempo, come la “veuze” (una cornamusa a doppia ancia e con un solo bordone), la “ghironda” (un antichissimo strumento musicale a corde che sono poste in vibrazione dallo sfregamento del bordo di una ruota azionata per mezzo di una manovella), il “tin whistle” (un piccolo flauto dritto a sei fori), il “bouzouki” (strumento a quattro doppie corde, simile al mandolino, ma dal manico molto più allungato) e il “dulcimer” (una sorta di violino molto allungato senza la cassa le cui corde possono essere pizzicate o sfregate con un archetto), oltre a vari strumenti a percussione (tamburi, tamburelli, ecc.).

Più di recente è apparsa la chitarra, utilizzata per dare ancor più ritmo ai balli per poi divenire anche uno strumento solista grazie al talento di pochi chitarristi fra i quali l’antesignano, Dan Ar Braz (pseudonimo di Daniel Le Bras), divenuto come Alan Stivell un mito per intere generazioni di amanti della musica di tutta Europa. Nel panorama della musica celtica, e bretone in particolare, la sua esperienza è stata infatti assai innovativa, caratterizzandosi per le influenze rock accostate a una forte base tradizionale. Fra le tappe della sua carriera indimenticabile ricordiamo, agli inizi degli anni ’90, la fondazione a Quimper dell’Héritage des Celtes (l’eredità dei celti), una band formata da musicisti che provenivano da tutte le nazioni celtiche e che suonò dal vivo al settantesimo Festival della Cornovaglia francese, nel 1993. L’avventura superò ogni aspettativa e la band si esibì anche in altri grandi eventi in tutta la Francia. La fama di Dan ar Braz e del suo gruppo travalicò i confini francesi quando nel 1996 furono chiamati a rappresentare la Francia alla quarantunesima edizione dell’Eurovision con una canzone in lingua bretone, ”Diwanit bugale”. Nell’agosto del 2000 il gruppo suonò al Festival Interceltico di Lorient, e Dan Ar Braz annunciò in quell’occasione che quello sarebbe stato l’ultimo concerto. E così fu, determinando o contribuendo di fatto, dopo l’uscita di ben ventiquattro album musicali, alla nascita del suo immortale mito musicale.

E dire che in principio erano state le Soeurs Goadec (tre sorelle), che si esibivano a metà del ‘900, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, con vestiti tradizionali a resuscitare la storia della musica popolare bretone nella memoria collettiva. Il genere da loro inaugurato fu chiamato “kan ha diskan“, letteralmente canto e controcanto. Ed era organizzato in strofe che si ripetevano due volte in cui una voce o uno strumento solista partiva da solo e veniva poi sostenuto, verso la fine di una strofa, da una seconda voce o da uno strumento di rinforzo. Il loro successo fu legato alla riesumazione di storiche “gavotte”, canzoni da ballo per eccellenza caratterizzate da ritmi sempre più marcati tipici delle feste da ballo bretoni, in particolare i “fest noz”.

Ma fu solo per merito degli artisti bretoni che abbiamo citato (e di tanti altri, intendiamoci) che la musica e la cultura bretone nel suo complesso valicarono i “confini di sale” della Bretagna geografica per essere conosciute in tutto il mondo, grazie anche a quelle canzoni popolari e arie tradizionali cantate su ritmi moderni nei quali gli strumenti tradizionali hanno avuto modo di mescolarsi anche con gli strumenti elettrici per mostrare un nuovo volto che, senza dimenticare le proprie radici, è oggi lontano dal folclore locale e appare rivolto al futuro.

Maurizio Karra

Il testo di quest’articolo è in parte tratto dal volume “I bretoni e i confini di sale della loro terra”, dello stesso autore, edito da Fotograf (ISBN 978-88-97988-57-1)

Fotografia di Maurizio Karra, bandiera bretone

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