Pubblicato il 17 Aprile 2023

Come le piantagioni sfruttano terreni e persone: una nuova parola per la nostra Era Geologica

di Giulia Guanella

piantagionocene

È ormai ampiamente riconosciuto che l’attività umana sulla terra, oggi globale, rappresenta la causa dominante della maggior parte dei mutamenti ambientali contemporanei e che i suoi impatti saranno probabilmente osservabili nei record della stratigrafia geologica per milioni di anni a venire. Questo ha portato ricercatori e studiosi nel corso dell’ultimo decennio a suggerire che una nuova epoca sia definitivamente iniziata e a proporre nuovi termini e linguaggi per riferirvisi: non più Olocene (come ancora è ufficialmente denominata l’unità geologica in cui viviamo), ma Antropocene. Un termine reso noto da Eugene Stoermer e Paul Crutzen e la cui formalizzazione all’interno della scala temporale geologica è ancora in fase di revisione, ma che, superando non pochi scetticismi, è rapidamente diventato imprescindibile per riferirsi al nostro presente.

Carico di un senso di tragedia, il termine Antropocene racchiude evidentemente significati ambivalenti. Rimane però ad esso il merito di evidenziare una natura che non esiste più nella sua accezione scientifica tradizionale, sostituita da mondi naturali che sono inestricabili dai mondi umani. Una prospettiva che pone in allerta discipline scientifiche e umanistiche nel prepararsi a riconsiderare radicalmente cosa sia la natura, l’essere umano e le sue relazioni storiche e politiche con gli altri esseri, in una collaborazione transdisciplinare. Non meno importante, dimostra come per comprendere correttamente la “natura” abbiamo oggi bisogno di ricorrere alle scienze sociali e all’approfondimento critico della storia dell’uomo.

Nell’ottobre 2014 un ancora rudimentale concetto di Antropocene è stato il tema cardine di una conferenza ospitata dall’Università di Aarhus, registrata per la rivista Ethnos. Intitolata Anthropologists are talking about the Anthropocene, la conferenza invitava in realtà esponenti di diversi background e ambiti di ricerca quali antropologia, geografia, studi di area, biologia, primatologia, studi femministi e studi scientifici, riassunti nelle figure di Donna Haraway, Anna L. Tsing, Noboru Ishikawa e Kenneth Olwig, a confrontarsi sulle potenzialità e le insidie insite nel termine. Condividendo un certo scetticismo verso l’Antropocene, durante la chiacchierata entra nel discorso un ulteriore termine, quello di Capitalocene (usato per la prima volta da Andreas Malm e subito accolto da Jason Moore) che insisterebbe nel delineare un’epoca complessa, dove la questione ambientale non è più pensata come una conseguenza possibile del capitalismo, ma sua dimensione costituiva intrinseca. Questo concetto suggerisce una storia più lunga di quella di chi data l’Antropocene dalla metà del XVII Secolo in avanti, guardando all’agricoltura degli schiavi, e non al carbone, come un momento cardine di transizione. Analizzando i meccanismi dell’economia di piantagione, essi rappresentano infatti in maniera esemplare la creazione del rapporto astratto tra investimento e proprietà che è alla base delle logiche capitaliste. Un simile tipo di relazione rende possibile trasformare una data ecologia in qualcosa di completamente diverso anche da grandi distanze, con una profonda alienazione che coinvolge sia le piante che gli animali, gli organismi e gli esseri umani che entrano a farne parte. Il sistema della piantagione precede entrambi i termini Antropocene e Capitalocene, tanto che potrebbe essere necessario introdurre un nuovo “cene”: Piantagionocene.

Piantagionocene: il termine rimanda all’idea delle piantagioni come nature capitaliste che sistematicamente comportano lo spostamento, l’espropriazione o lo sfruttamento delle popolazioni indigene, comunità rurali e la stessa vegetazione in nome del progresso e dello sviluppo, riflettendo i principi di semplificazione ecologica, omogeneizzazione e strumentalizzazione che caratterizzano la presente epoca.

Da queste, il mondo moderno avrebbe ereditato non solo un modello, ma anche un motore per lo sviluppo della macchina del sistema produttivo industriale, un sistema in cui diverse comunità multispecie sono spinte verso l’orlo dell’estinzione. Un aspetto che rende così evidente la continuità strutturale dell’impoverimento causato del sistema delle piantagioni ha a che fare con l’insostenibilità di queste pratiche nei confronti del luogo e suolo che le accoglie: si pensi, come sottolinea Donna Haraway, il grado in cui le piantagioni distruggono la loro stessa base, esauriscono i suoli, esauriscono i popoli, esauriscono le piante e gli animali, e permettono il proliferare di agenti patogeni.

Se nel tentativo delle prime concettualizzazioni di Antropocene si nascondeva un pericolo, ovvero quello di oscurare le profonde disuguaglianze tra le forme di vita e di potere coinvolte nello sfruttamento delle risorse, prospettive come quella del Piantagionocene possono invece rappresentare un’opportunità di dichiarare in maniera più evidente il grado in cui processi di razzializzazione e colonizzazione sono stati implicati nello sviluppo dell’attuale catastrofe economica ed ecologica del sistema-mondo. Porre la piantagione al centro della riflessione sulle crisi odierne significa infatti evocare simultaneamente il razzismo, il colonialismo, l’imperialismo e il capitalismo come caratteristiche inestricabili e ugualmente concorrenti nei presenti, passati e futuri cambiamenti socio ecologici del Pianeta. Un vero e proprio “capitalismo razziale”, come suggeriscono i sociologi Murphy e Schroering, ovvero uno sviluppo economico capitalista che dipende dalla schiavitù, la violenza, l’imperialismo e il genocidio

È possibile concludere che di fronte alla catastrofe ambientale che si delinea all’orizzonte del nostro Pianeta e alle diverse emergenze contemporanee che si intersecano ad essa, appare sempre più urgente considerare criticamente come alcune scelte dettate dall’operato umano nella sua receste storia sulla Terra abbiano agito da innesco per processi rovinosi, di cui solo oggi iniziamo a sentire le vere ripercussioni. Se da una parte è assolutamente necessaria la ricerca di alternative e soluzioni, è altrettanto urgente agire nei confronti della consapevolezza collettiva, anche all’interno dello stesso mondo accademico e scientifico. Proponendo nuovi termini, definizioni e linguaggi per la rappresentazione del presente, è possibile rintracciare alternative che trattengano in sé traccia di cause e responsabilità annidiate in specifici capitoli della storia della nostra specie.

Giulia Guanella

Bibliografia

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Gauthier, F. (2002). À l’origine de la théorie physiocratique du capitalisme, la plantation esclavagiste L’expérience de Le Mercier de la Rivière, intendant de la Martinique, Actuel Marx, 32;

Haraway, D. J. (2015). Anthropocene, Capitalocene, Plantationocene, Chthulucene: Making Kin, Environmental Humanities, 6, 159–165;

Haraway, D. J. e Tsing, A. L. (2019), Reflections on the Plantationocene: A Conversation with Donna Haraway & Anna Tsing, Edge Effects. https://edgeeffects.net/haraway-tsing-plantationocene/;

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Mbembe, A. (2013), Necropolitiche, trad. Beneduce, R., Antropologia. 8;

Murphy, M. W. (2017), The Economization of Life, Duke University Press;

Murphy, M. W. e Schroering, C. (2020), Refiguring the Plantationocene: Racial Capitalism, World-Systems Analysis, and Global Socioecological Transformation, Journal of World-Systems Research;

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Tsing, A. L. (2021), Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo, Keller.

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