Pubblicato il 10 Febbraio 2024

L’ eterofobia, la paura della differenza, e il pericolo per l’antropocene

di Chiara Nisi

Gli antichi Greci, per indicare l’amico, il compagno, utilizzavano la parola εταῖρος (etairos), avente la stessa radice della parola ‘altro’, ετερος (éteros). “L’altro è amico” era dunque presso i Greci la professione di fede, dal punto di vista linguistico ed etico, prima che da essi stessi fosse introdotto il concetto di βαρβαρος (bárbaros). Barbaro è “colui che balbetta”, che non parla come me e che quindi da me è ritenuto di-verso, nell’etimo latino “diretto verso un’altra direzione”, che non è la mia. Lo scandalo linguistico col tempo ha attecchito: abbiamo conservato la parola ‘altro’ per indicare ciò che è differente, spesso con dichiarata diffidenza, e abbiamo perso gradualmente l’accezione di etairos.

Sussiste oggi una certa incapacità, o scarsa capacità, di aprirsi all’altro e questa triste tendenza si manifesta nella difficoltà d’ascolto, d’accoglienza e d’immedesimazione nell’altro. Che siano stati gli schermi mediatici a creare delle protezioni e riconoscerle come necessarie, che abbia contribuito la pandemia a diffidare dell’altro, in quanto potenziale infettivo (opposto ad affettivo), che sia colpa dell’ego narcisista che ha contagiato la società degli ultimi cinquant’anni, sta di fatto che nel secolo dell’antropocene sembra che l’umano abbia reso l’ambiente infermo e l’anima refrattaria. Il binomio antropocene ed eterofobia si rivela pericoloso, se consideriamo che l’antropocene stessa va curata con la solidarietà: non c’è altra soluzione che un amalgama degli intenti, una social catena leopardiana che comprenda come le esigenze del singolo siano esigenze della collettività e che senza questo slancio di empatia rischiamo di restare impantanati in un sistema sterile e malato.

Una ricerca effettuata dall’ISP (Istituto per lo Studio delle Psicoterapie) e pubblicata il 10 Dicembre 2022, in occasione della giornata mondiale dei diritti umani, sostiene che “l’eterofobia, intesa come paura verso la diversità, è considerata come una predisposizione ancestrale di difesa da parte dell’essere vivente. L’uomo programmato per la sua sopravvivenza, nel momento in cui si trova a doversi confrontare con qualcosa di diverso, attiva fisiologicamente una reazione di difesa, che partendo dal sistema nervoso ne provoca l’arousal inteso come stato di iperattivazione, che si verifica in risposta a sollecitazioni interne o ambientali. La reazione successiva è una messa in atto di meccanismi di difesa rigidi che possono realizzarsi in comportamenti eccessivamente conformisti o oppositivi che sottolineano il confine netto di separazione tra ciò che si accoglie e ciò che si respinge”.

C’è un’attitudine malsana ad occuparsi del proprio spazio, senza aprirsi all’altro, ed è chiaro che l’incapacità di aprirsi all’altro derivi da un’incapacità di aprirsi a sé stessi.

Nonostante l’invito reiterato di papa Francesco, che in svariate occasioni ha ribadito come solidarietà significhi anche lottare contro le cause strutturali della povertà e delle diseguaglianze, della mancanza di lavoro e della negazione dei diritti sociali e lavorativi, sembra non esserci una comunione d’intenti in tal senso. I soprusi, le violenze, l’odio mediatico non fanno che confermare la sussistenza di questa cancrena mondiale.

Quando scrive La Ginestra, l’ultimo Leopardi non lascia all’uomo una visione pessimista, tutt’altro: dichiara che c’è un’unica azione salvifica nei confronti della doglia mondiale, ed è la social catena, null’altro che un esercizio di empatia, in nome del quale tutti gli esseri umani si uniscano nella comprensione e nella compassione, ed esercitino in tal modo l’armonia del vivere.

Siamo nel secolo maggiormente compromesso nella sua essenza fisica, e paradossalmente, anziché unirci, ci separiamo, ci allontaniamo: le illogiche disuguaglianze sociali, l’avversità nei confronti dei migranti, i rigidi muri innalzati in nome di ridicole e pericolose geopolitiche arbitrate male sono triste testimonianza del “distanziamento sociale” ormai dichiarato e divenuto prassi.

Non c’è elemento che non sia nato dall’incontro, non c’è società, non politica che non sia nata dall’incontro, che è origine primordiale dell’esistenza. Veniamo da mescolanze, da bellissime interferenze tra l’io e l’altro. Siamo fondati sull’etica dell’incontro. E la solidarietà dovrebbe essere una naturale disposizione di ciascuno su questa Terra, una dimensione esistenziale a difesa della propria libertà e di quella altrui. Noam Chomsky ha scritto: “la solidarietà rende gli individui difficilmente controllabili e impedisce che diventino un soggetto passivo nelle mani dei privati. Quindi occorre una macchina propagandistica che corregga ogni deviazione dal principio della soggezione ai sistemi di potere”. C’è dunque un effetto salvifico nell’esercizio della solidarietà , forse dimenticato dai più : essa è garanzia di libertà , capire l’altro è una garanzia per la libertà del singolo ed è tutela contro le dominazioni, le imposizioni, le dittature politiche e spirituali.

Non monadi, ma collettività: siamo questo. E lo ribadisce l’articolo 3 della Costituzione, che invita a rimuovere ogni ostacolo economico e sociale che impedisca il pieno sviluppo della persona umana. Ogni vita si fa cosı̀ carico delle altre e ne difende l’espressione. In quest’ottica di condivisione, non può esserci chiusura, perché ogni chiusura farebbe inceppare l’ingranaggio e rallenterebbe l’andamento armonioso del mondo che ci è dato abitare.

La solidarietà è dunque l’unica strada da percorrere, perché il mondo possa dirsi tale (la sua etimologia rimanda all’aggettivo latino mundus, pulito, puro). Ma la società attuale è avvezza a quella che Hannah Arendt definı̀ la banalità del male: c’è un limite nell’esercizio delle coscienze, che si muovono considerando il proprio utilitarismo e tendendo ad oscurare l’altro. Nel suo celebre saggio, la Arendt chiarisce come le azioni perpetrate su terzi siano il frutto non di una coscienza collettiva, ma di una coscienza sempre individuale. Se l’io riconosce perlomeno ciò che è evidentemente giusto, ciascun io, cooperando, creerà una catena solidale. Ma chi opera il male senza coscienza, spezza inevitabilmente questa catena.

L’antropocene, che ingloba ormai anche la guerra, richiede uno sforzo di collettività, una riduzione degli egoismi politici, una riduzione dei consumi, un bagno di umiltà nel riconoscimento delle disparità sociali, perché il contributo dei singoli possa diventare rivoluzione dei molti: gutta cavat lapidem, e vale anche in accezione positiva, nella misura in cui la perseveranza del singolo, che ha fede nella collettività, si trasforma in benessere dei molti.

E’ evidente come la mancata tensione verso l’altro sia mancata propensione verso sé stessi: siamo sempre meno educati all’ascolto profondo del proprio sé, necessario per entrare in contatto con l’armonia mondiale.
Il cambiamento non è una transizione impossibile. Venga in aiuto a questo assunto il pensiero del filosofo contemporaneo Vito Mancuso, che nel suo saggio Il coraggio e la paura, parlando dei “profeti di sventura” (espressione che riprende da un discorso di Giovanni XXIII), cioè di coloro che credono che il mondo non cambierà mai e che, se cambiasse, sarebbe in peggio, scrive: “Dicendo che non cambierà, il mondo non cambierà. Il mondo infatti siamo anche noi; una piccolissima parte, certo, ma non per questo meno reale. […] Ogni volta che uno di noi cambia in meglio, anche le altre piccolissime parti di mondo accanto a lui o a lei potranno cambiare, e potranno anch’esse a loro volta generare cambiamento positivo accanto a loro, e così via. So bene che non è facile, né molto frequente, e meglio di me lo sapeva Kant che parlava dell’essere umano come di un «legno storto», vedendovi una permanente disposizione al male che contrassegnava in termini di «male radicale», cioè che attiene precisamente alle radici”.

Occorre oggi un risveglio delle coscienze, occorre che tutte e tutti ci concediamo il beneficio del dubbio, chiedendoci se siamo impantanati in ataviche convinzioni che, se smosse, potrebbero invece migliorare l’armonia delle cose e, di conseguenza, contribuire al risanamento dell’ambiente, termine col quale alludiamo etimologicamente a tutto ciò che ci va (iens, ientis – participio latino del verbo eo, ‘andare’) intorno (amphí, amb– è preposizione che indica ciò che contorna).

Occorre che le politiche si diano una disposizione di speranza: si può cambiare in meglio. Non è un percorso semplice, a suo modo può rivelarsi doloroso, ma indispensabile per una vita serena e libera.
In questi termini si espresse un celebre musicista indiano di fine Ottocento, Hazrat Inayat Khan, il quale, nel riflettere sulle condizioni dell’universo, sostenne che l’equilibrio della vita è basato sulla reciprocità. Io sono l’altro. E di questo non si può aver paura, perché significherebbe temere sé stessi.

Chiara Nisi

Immagine: MOHAMMAD HOSSEIN ARIYAEI, Hard Talk with 3 Iranian poets Shams Tabrizi, Hafez and Rumi, Acrylic on canvas, 69x90cm, 2018, in Iranian Art Brut: outsider art from Persia by Morteza Zahedi and Jean-Marc Decrop, edited by Jeremie Thircuir 

Di 10 Febbraio 2024Cultura, Filosofia

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