Pubblicato il 11 Dicembre 2024

Comprendere le periferie: tra stigma e marginalità nelle Marche

di Benedetta Tarsi

Lo spazio contiene. Crea. Si fa strumento delle relazioni tra umani e non-umani. È questa l’idea, già vagliata in ambito sociologico (Bourdieu, 1979) che mi ha spinto a indagare, dal punto di vista antropologico, in che modo lo spazio si configuri come campo relazionale, fulcro delle interrelazioni con e tra i soggetti viventi che lo popolano. Il fenomeno risulta particolarmente interessante nelle cosiddette aree urbane periferiche, spazi profondamente complessi e stigmatizzati.

Per esplorare da vicino questa realtà, ho scelto di concentrare l’analisi su un quartiere marginale: Villanova di Falconara Marittima. Ho ritenuto che un simile contesto, in una regione non molto studiata come le Marche, potesse illuminare dinamiche poco esplorate nella letteratura antropologica.

Il quartiere ospita dagli anni ’50 un impianto petrolchimico e, dalla fine degli anni ’80, numerose famiglie rom hanno scelto di stabilirsi nella zona a causa dei bassi costi immobiliari, favoriti proprio dalla vicinanza con la raffineria e dal progressivo spostamento degli autoctoni verso il centro. Questo fenomeno, in aggiunta all’arrivo negli ultimi dieci anni di nuovi gruppi migratori, ha innescato processi assimilabili, seppur non in toto, alla segregazione spaziale.

Come si può intuire, le questioni etniche e ambientali che caratterizzano questa porzione di città si intrecciano generando un contesto di conflitti e controversie. Da queste riflessioni è nato il mio progetto etnografico.

Osservando il quartiere e interagendo con i suoi residenti, ho potuto constatare come si parli troppo poco della necessità di studiare le periferie e le molteplici dinamiche di aporofobia e violenza simbolico-strutturale che le caratterizzano: il pregiudizio verso persone in condizioni di marginalità sociale è infatti tanto ambiguo quanto profondamente radicato, al punto che la periferia stessa non è più (o forse non lo è mai stata) solo una questione geografica, ma rappresenta uno spazio in cui disuguaglianze, marginalizzazione, stigma e contraddizioni vengono estremizzate (Wacquant, 2016).

Come “comprendere” le periferie e perché è necessario farlo?

La ricerca ha anzitutto rivelato che queste aree non sono decentrate, ma si trovano spesso inglobate nella città stessa, evidenziando come le dinamiche di emarginazione si configurino dal punto di vista sociale piuttosto che urbanistico. È questa situazione inedita a rendere necessario un nuovo approccio al concetto di periferia, che non è statico, ma mutevole e plastico.

Si è potuto inoltre riconfermare che terminologie quali “non accogliente”, “indecoroso” “pericoloso”, “periferico” sono termini spesso accostati e utilizzati come sinonimi. Da ciò emerge come l’aspetto cruciale da considerare sia proprio lo stigma territoriale (Wacquant, 2016): il fatto che le persone che abitano questi spazi finiscano per essere identificate e identificarsi con le caratteristiche negative attribuite al loro quartiere, non solo rinforza il senso di esclusione, ma porta anche a una difficoltà nell’inserirsi in dinamiche sociali più ampie.

Infine, è stata evidenziata la necessità di rilevare le ragioni delle interazioni conflittuali che quasi sempre si verificano tra le zone periferiche e il resto del tessuto urbano. È perciò fondamentale intervenire su più fronti, promuovendo approcci maggiormente strutturati.

In molte realtà, infatti, le comunità periferiche non sono composte da gruppi omogenei ma includono diverse categorie, creando una frammentazione interna che rende complessa la partecipazione collettiva a quelle iniziative cittadine quasi sempre programmate “dall’alto”: le difficoltà di integrazione, dovute a barriere linguistiche, economiche e culturali, alimentano di conseguenza la percezione di disinteresse.

Sarebbe quindi opportuno considerare le ricerche etnografiche in modo da sviluppare una progettazione urbana che parta dalla comprensione delle specifiche esigenze, promuovendo un’interazione reale: ad esempio andrebbe incrementata la collaborazione con figure come i mediatori sociali, spesso sconosciute, in aggiunta alla considerazione delle specifiche peculiarità locali. Non andrebbe inoltre ignorata la questione della povertà e di come questa, base della piramide dello stigma, svolga un ruolo cardine nel creare barriere invisibili, ma in grado di separare i gruppi sociali senza via d’uscita.

Solo con un approccio più integrato possiamo perciò sperare di costruire nuove realtà dove tutti i cittadini, indipendentemente dal loro background, arrivino a sentirsi parte della comunità. In questo modo, i vari progetti sociali e urbanistici potrebbero essere pienamente funzionali proprio perché ben calibrati sul tessuto sociale in cui vengono applicati.

I luoghi non sono mai soltanto luoghi. E partire dalla ricostituzione di quelli stigmatizzati potrebbe essere la base per cambiamenti profondi e soprattutto reali.

Benedetta Tarsi

Per approfondire:
Benedetta Tarsi, “Terra bruciata”: uno studio sulle dinamiche di stigmatizzazione territoriale e segregazione spaziale nel quartiere Villanova di Falconara Marittima, Tesi di Laurea Magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche, Università degli Studi di Milano Bicocca, 2024.
Pierre Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino, 2001: opera che esplora come i gusti estetici e culturali contribuiscano a creare la disuguaglianza senza trascurare i “site effects”, ovvero gli effetti luoghi nel momento in cui questi divengono estensione della posizione sociale occupata dall’individuo.
Loïc Wacquant, I reietti della città, ETS Edizioni, 2016: questo lavoro consiste in una riflessione critica sulle diseguaglianze sociali urbane, tramite analisi approfondite sullo stigma di alcuni gruppi sociali costretti a una condizione di marginalità e segregazione. È in questa opera che emerge il concetto di “stigma territoriale”.

L’immagine è stata scattata nella primavera del 2024, durante la ricerca etnografica a Villanova, svolta grazie anche al supporto dell’antropologia visuale tramite produzione fotografica e photo-elicitation. Le immagini della ricerca si sono fatte portavoce del senso di disagio che aleggia non solo nel quartiere, ma anche nel resto della città, a sua volta oggetto di stigma a causa dei molteplici fattori complessi di cui si fa teatro e che hanno portato all’elaborazione del concetto di “doppio stigma”. Si richiama inoltre il ricorso a graffiti e murales come vettore di messaggi sociali che caratterizza gli ambienti periferici, con le relative forme di riscatto sociale che si manifestano tramite l’espressività artistica.

Condividi l'articolo sui tuoi Social!