Pubblicato il 7 Agosto 2020

La natura dell’uomo, ovvero il dialogo tra San Paolo e lo scorpione

di Cesare Grisi

Perché faccio il male che non voglio e il bene che voglio non lo faccio? Si chiedeva Paolo di Tarso (Romani, 7, 18).
Ma è semplice – rispondeva lo scorpione alla rana prima d’affogare, dopo averla punta a morte nel mezzo del fiume, mentre questa l’ospitava per il guado sulla groppa – perché è nella mia natura!

Bisogna superare il principio di natura, perché è economico. Per di più, tale economia, inscritta nel comandamento biologico della vita oltre che nell’ecosistema naturale, è per l’uomo (e per l’antropomorfico scorpione) innaturale. Vediamo perché.

I grandi realisti, passati alla storia come pessimisti (Leopardi, Schopenhauer, Nietzsche…) hanno sobbalzato quando hanno osservato la Natura e le sue leggi con la lente d’ingrandimento. La natura è cattiva, si son detti, legando «cattiva» alla prospettiva antropocentrica. L’uomo è cattivo, hanno poi dedotto logicamente, esaminando, con la lente d’ingrandimento, il fenomeno umano. Darwin ha poi spiegato cosa significava esattamente questa efferatezza che Schopenhauer aveva intuito – intendendo «efferatezza» sempre dalla prospettiva antropocentrica (che Darwin ha ribaltato!). Impossibile per l’uomo non usare gli aggettivi che in qualche modo lo rispecchiano, e gli aggettivi denotano quasi sempre il disumano che s’osserva agire nelle creature senza remora, senza coscienza. Ma poi, a sua volta, Freud ha disvelato i dedali oscuri dell’incoscienza umana, le pulsioni di fondo analoghe a quelle delle restanti creature con le quali l’uomo ha condiviso il percorso evolutivo.

Ma perché le altre creature della Terra non usano aggettivi che le rispecchiano e coinvolgono? È successo qualcosa, ad un certo punto, nell’evoluzione umana. È chiaro che sia successo qualcosa. Meno chiaro cosa sia successo esattamente: l’attualissima analisi dei pessimisti pare ancora del tutto valida, nel suo asserto principale che vede l’uomo incapace di autoregolarsi sulla base delle sue facoltà superiori. Basterebbe osservare solo ciò che fa e pensa (e come esprime la sua più evoluta facoltà: il voto) l’uomo contemporaneo… Quel ch’è successo è una sequela incredibile di cambiamenti biologici e psichici, impossibile da ripercorrere in questa sede, che ha portato alla nascita di qualcosa d’impalpabile che potremmo chiamare, in prima battuta, facendo un occhiolino ambiguo alla legge economica di natura, valore.

Un albero, un animale, a quanto ne sappiamo, non sanno perché vivono. Semplicemente: vivono! La loro vita è completamente assorbita dall’unico dispotico comandamento che è: vivere! Vivono, cioè, nell’unica dimensione della vita stessa: non esistono domande eziologiche né causali, esistono istinti che sono tesi a soddisfare i bisogni primordiali, basilari, elementari. Fanno quello che produce la vita, quello che la vita comanda: un ramo di faggio cerca il sole; una volpe mangia un topo; un gregge di pecore si sposta all’ombra perché se no cuoce al sole; un pavone fa la ruota per attrarre la pavonessa che gli darà la prole; una carogna di sciacallo marcisce al sole sfamando leoni, avvoltoi, vermi, e così via gerarchicamente dal grande al piccolo. Si argina la fatica per accrescere il profitto. Nel combattimento due cervi maschi non arrivano, in genere, a ferirsi: una volta compreso chi è più forte, lacerarsi non ha senso, sarebbe antieconomico. I nostri progenitori non lottavano corpo a corpo con i cervi: li buttavano dal dirupo: perché rischiare d’essere feriti? Bisogna minimizzare i fallimenti e massimizzare i risultati positivi. Una cellula è pronta per duplicarsi e trasferire il proprio patrimonio genetico quando, dentro se stessa, c’è già il patrimonio genetico moltiplicato. E, non solo l’errore di riproduzione del genotipo è messo a regime dall’evoluzione e produce uno scatto evolutivo (Manfred Eigen, I gradini della vita: l’evoluzione prebiotica alla luce della biologia molecolare), ma anche il comportamento dell’individuo produce evoluzioni del genoma (epigenesi)…

Dovessimo antropomorfizzare il comportamento animale, lo definiremmo con l’aggettivo (sostantivato) idiota, intendendo etimologicamente idiota (gr. idiótes) colui che, chiuso nel proprio privato, nei propri interessi particolari, non partecipa alla vita pubblica, non s’apre alla conoscenza della totalità. Idiota, nel mondo squisitamente umano, è l’«Uomo Sincronico» (link qui) . Ma, per quanto comune, tacciar d’idiota un non umano sarebbe ingenuo: l’animale non ha coscienza del valore della vita: ha una sorta d’incoscienza coatta (istinto) protesa al solo proprio auto-sostentamento (e, non sempre, della sua prole, fino ad un certo punto). La legge economica, ovvero la legge della Specie, ovvero la legge di Natura: comandano azioni foriere di vita. Ma vita di chi? Ogni singolo animale ‘idiota’ per se stesso, e la Specie e la Natura, ignorando la microeconomia del singolo, lavorano a favore della macroeconomia dell’ecosistema, decretando la legge più efferata che uomo possa immaginare: il cannibalismo. La natura, il suo sovraordinamento, per sopravvivere, mangia le sue stesse infraordinate creature. È questo il sobbalzo dei realisti: gli uomini si son sempre comportati così e, nonostante ineccepibili segni di etero-direzione, continuano a comportarsi così in linea generale.

Hobbes stigmatizzò questo standard nel suo Leviatano, riprendendo il motto plautino (espresso nella commedia Asinaria) dell’homo homini lupus, e della lotta di tutti contro tutti (bellum omnium contra omnes), e lo fece contrastando di fatto il concetto di uomo come animale sociale (zoon politikon) espresso da Aristotele nella sua Politica. Da qui, tutta la fatica del genere umano, dai greci a Rousseau, da Galileo alle neuroscienze, dalle Carte Costituzionali e dei Diritti Umani alle lucciole, alle scintille solitarie come Gandhi, come Mandela… per correggere il tiro del retaggio, per assecondare una nuova istanza d’entrar nel nuovo mondo del valore.

È commovente la storia, o, come la chiama Jean-Jacques Hublin, la Preistoria della compassione («PNAS», April 21, 2009, vol. 106, no. 16, 6429-6430). Possiamo solo fare delle deduzioni di fronte a fragili reperti ossei, ma ciò che emerge è chiaro: che, ad un certo punto, s’è incrinato, nella nostra evoluzione (anzi: ai primordi della nostra evoluzione), il concetto di economia. Questo è lo snodo degli snodi: l’evoluzione del cervello (un processo ben più lungo dei di 2,5 milioni di anni della specie Homo, che ha per nome encefalizzazione, cfr. Yves Coppen, Ominoidi, ominidi e uomini), per fare solo un esempio, ha prodotto ben altro che un mero sviluppo delle capacità cognitive. Ad un certo momento i primati hanno dato origine ad un’azione che aveva del rivoluzionario. La più grande rivoluzione della storia è forse questa: il gesto non economico. Un gesto contro natura, oltre la legge di natura. Moltissimi reperti parlano delle prime cure parentali su individui che non avrebbero potuto sopravvivere senza l’aiuto gratuito dei loro simili: aiuto che sicuramente pesava nell’economia del singolo e del gruppo.

Da questi testi di taglio paleo-antropologico e antropologico-evolutivo, rigorosamente scientifici ma mio avviso ma più che letterari, emerge un quadro incredibile del nostro passato, che getta per contro un’ombra di realismo pessimistico sul presente, si capisce. Siamo nati una seconda volta quando, immaginiamo, per la prima volta, invece che un colpo, è volata una carezza. E quella carezza s’è impressa indelebilmente nell’animo, riconosciuta agnitivamente con un senso di piacere mai avvertito prima, non legato al mangiare, non legato al riposo, non legato all’accoppiamento. Gli psicologi dello sviluppo e dell’età dell’educazione, così come gli etologi, sanno bene di che si tratta: la carezza è presente in natura. La carezza è, per esempio, il gesto del leccare. Ed è stato detto che, paradossalmente, nessun essere vivente potrebbe sopravvivere alla mancanza di carezze, in qualsivoglia modo esse s’estrinsechino. Ma questa carezza è stata qualcosa di diverso: non un feedback, ma un gesto di sola andata e senza ritorno, senza aspettativa, senza economia. Un gesto rivoluzionario come l’abiogenesi, che ha innestato un nuovo corso generativo d’un nuovo stadio dell’umanità: l’etica (di cui parleremo presto, nel terzo ed ultimo contributo, qui, su La rivista culturale).

Ecco, ora possiamo ritornare alla dialettica paradossale tra San Paolo e lo scorpione, con un corollario di senso (valore) costruito intorno, e vedere dove portano i viottoli dei backyard privati, nei quali le sincronie son vicoli ciechi del diacronico.

Abbiamo un retaggio. Una corazza che del tutto non possiamo eliminare. La parte economica farà parte di noi, che siamo anche esseri biologici. Ma siamo anche altro. Siamo saliti ad una dimensione ulteriore, al secondo livello di Popper (I tre mondi), al sistema due di Kahneman (Pensieri lenti e veloci) e dal lassù diacronico vediamo irradiarsi le strade che abbiamo frequentato nel nostro lungo tempo sincronico, in un’’idiozia’ che non è ancora finita.

Vediamo noi stessi nel passato, pelosi, rabdomanti, con la fronte stretta, con gli zigomi pronunciati, così simili a quel che siamo nel presente tecnologico quando siamo incravattati. Da questa vista ambigua, apparentemente inconciliabile, deriva la schizofrenia della quotidianità: ch’è l’interdimensione tra quel che non è più e quel che non è ancora. Soprattutto vediamo che l’antica legge che sentiamo in noi, quella della vita, non è più al primo posto nella nuova gerarchia dei valori. Non è vero che vivere è la cosa più importante. Ora, più importante, è il perché si vive: è nato lo scopo, il fine che rappresenta il valore.

Del non più s’è detto ora. Del non ancora, tra poco, si dirà.

Cesare Grisi

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