Pubblicato il 18 Novembre 2019

Vie di fuga: come liberarsi dagli obblighi della propria cultura

di Giulia Bertotto

Adriano Favole, antropologo e professore di antropologia culturale, ci conduce lungo “Vie di fuga” (UTET, 2018), facendoci compiere “otto passi per uscire dalla propria cultura”. Ricordiamo che la parola cultura deriva da colĕre, coltivare, ovvero fare di un terreno brado, un giardino nel quale abitare.

Quando siamo invitati a un matrimonio o ad un battesimo, quando ci ritroviamo a un funerale, o festeggiamo il compleanno che sancisce la maggiore età, stiamo rispondendo a degli obblighi socialmente imposti dalla nostra cultura. Si tratta di solito di riti di passaggio che accompagnano fasi cruciali della vita, come la nascita, l’iniziazione adulta e la morte, e che stabiliscono così un mutamento di ruolo del soggetto nella comunità. Spesso l’individuo deve superare una sorta di prova per essere ammesso al suo nuovo ruolo nella società, attraverso una prestazione simbolica e fisica accompagnata da una formula, cui seguono atti conviviali di pasti comuni e offerta di doni. Anche quando ad esempio celebriamo il passaggio ad un’altra stagione attraverso le ricorrenze religiose, eseguiamo queste consuetudini in modo naturale, senza rendercene conto, aderendo a delle forme rituali contemporanee. Queste pratiche fondano e tramandano modelli valoriali. Tuttavia esse, mentre ci rendono coesi alla nostra cultura di appartenenza, ci spingono anche a conoscerne altre e ad andare incontro a diversi  modi di vivere.

Ma cosa sono queste vie di fuga? E perché si dovrebbe cercare di “fuggire” dalla propria cultura?

Ed è possibile uscire dalla propria cultura? Le uscite dalla cultura sono quelle attività comportamentali e cognitive che non si incasellano nella produzione di regole e convenzioni, ma sospendono e trascendono o anche sovvertono, lo status quo. Possono esserlo uno spettacolo comico che utilizza la satira per “esplorare” con un altro sguardo la cultura di provenienza, ma anche il teatro e il gioco.

Mamafa è un termine polinesiano che designa il “peso” scomodo di qualcosa, il fardello di un onere e può essere utilizzato anche per descrivere il peso della propria cultura, cioè di quei codici e ruoli che  ci identificano senza potersene mai liberare. Una via di fuga è allora una “crepa” in cui non sentirsi schiacciati da questi obblighi sociali e degli usi stabiliti. Uscire dalla propria cultura anche solo per una visita al museo o per un viaggio funziona da specchio per riflettere su se stessi da un’altra prospettiva.

Le vie di fuga dall’assuefazione al quotidiano, risvegliano la criticità su usi e credenze abituali, la curiosità rispetto a questioni che riguardano tutti gli uomini e perfino sul mondo animale e vegetale, ci dice l’autore. Gli antropologi in modo analogo parlano dello “spaesarsi” per comprendere i significati  nel linguaggio di altre culture.

E dato che alcuni termini non trovano un corrispettivo sufficientemente preciso nel metodo della traduzione, si tenta un’ “estensione” dei loro significati. Spaesamento dai miei significati ed estensione dei nostri, è una delle formule della fuga.

Potremmo riassumere così la massima di questo saggio: cultura è anche sempre cercare di uscirne.

Mentre le culture annaffiano il loro giardino di diversità, la fuga è l’elemento universale. Non esiste  però, ci spiega l’autore, un terreno neutro di cultura o pre-culturale.

L’uomo è animale culturale, o come disse l’etologo Lorenz “l’uomo è per natura un animale culturale”. Ma in ciascuno abita anche la spinta ad oltrepassare il proprio habitat cognitivo-comportamentale. Questo perché ogni cultura è in se incompleta, costantemente in costruzione e aspira dunque a realizzarsi entrando in contatto con le altre. Per questo si viaggia, talvolta si migra, o semplicemente si visitano mostre fotografiche di luoghi lontani.

L’antropologia indaga così qualcosa che ci caratterizza nel profondo: un’inquietudine meta-culturale comune a tutti noi.

Giulia Bertotto

Adriano Favole, Vie di fuga, otto passi per  uscire dalla propria cultura, Utet, 2018, pp. 144.

In fotografia: “Forest” by Geralt, Gerd Altmann, Deutschland (CC Pixabay License).

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