Pubblicato il 26 Maggio 2021
Nuda vita e necropolitiche: potere e controllo dei corpi, una rilettura di Mbembe e Agamben
di Melissa Pignatelli
Le necropolitiche sono quell’insieme di pratiche implicite ed esplicite descritte da Achille Mbembe, filosofo camerunense, in Necropolitica (Ombre corte , 2016) legate all’esercizio del potere: è questo l’assunto che lega l’analisi di Achille Mbembe sulle modalità con cui gli Stati governano e controllano la vita e la morte delle persone. Il concetto di biopotere invece è un termine coniato da Foucault per definire il controllo esercitato dallo Stato sulle vite di ognuno di noi.
Il biopotere si esercita tramite la messa in pratica di politiche. Se queste hanno a che fare con il diritto degli esseri umani di vivere, o se ne limitano le possibilità, entriamo in un ambito di morte nel quale non vengono più riconosciuti i diritti, compreso il diritto naturale o burocratico alla vita.
Giorgio Agamben, riferendosi alle vite dei detenuti nei campi di concentramento, in Homo Sacer, (Quoblibet, 2021) coniò il termine di “nuda vita” in quanto i prigionieri erano privati di ogni status politico in luoghi nei quali “la più assoluta conditio inhumana mai apparsa sulla terra è stata realizzata”.
Necropolitiche è una profonda e complessa riflessione di Achille Mbembe che lega gli ambiti teorici del biopotere e della vita nuda per far risaltare quanto confluiscono in politiche che determinano la vita o la morte delle persone, le necropolitiche appunto. Alla luce della quantità di esseri umani in movimento da uno Stato all’altro, da un continente all’altro, dalle atrocità perpetrate ogni giorno su persone la cui dignità sembra non esistere, dai genocidi di cui siamo testimoni passivi davanti ai nostri televisori, dalle innumerevoli vittime di abusi e violenze che paiono sempre più accettate dall’opinione pubblica, ci sembra utile proporre una rilettura di alcuni passaggi significativi della ricerca di Mbembe (che trovate per intero qui).
“Nella formulazione che ne dà Foucault, il biopotere sembra funzionare attraverso la divisione della popolazione fra coloro che devono vivere e coloro che devono morire. Operando sulla base di una scissione fra gli esseri viventi e i morti, un tale potere si definisce in relazione all’ambito biologico: un ambito nel quale assume il controllo investendosi del diritto di decidere. Questo controllo presuppone la distribuzione delle specie umane in gruppi, la suddivisione della popolazione in sottogruppi, e l’istituzione di una cesura biologica fra gli uni e gli altri. Questo è ciò che Foucault etichetta con il termine (a prima vista familiare) di razzismo.
Dopo tutto, ben più che il pensiero di classe (l’ideologia che definisce la storia come una lotta di classe), la razza è stata un’ombra onnipresente nella pratica e nel pensiero politico dell’Occidente, specialmente quando esso giunge a immaginare la non umanità e il dominio di popoli stranieri. Riferendosi sia a questa onnipresenza, sia in generale al mondo fantasmatico della razza, Arendt situa le loro radici nella sconvolgente esperienza dell’alterità e suggerisce che la politica della razza è legata, da ultimo, alla politica della morte. In effetti, nella terminologia foucaultiana, il razzismo è soprattutto una tecnologia rivolta a permettere l’esercizio del biopotere, “il vecchio diritto sovrano della morte”.
Secondo Enzo Traverso, le camere a gas e i forni crematori sono stati il culmine di un lungo processo di disumanizzazione e industrializzazione della morte, del quale un aspetto originale fu l’integrazione della razionalità strumentale con la razionalità amministrativa e produttiva del mondo occidentale moderno (l’officina, la burocrazia, la prigione, l’esercito). Una volta meccanizzata, l’esecuzione seriale fu trasformata in una procedura rapida, puramente tecnica, impersonale e silenziosa. Questo sviluppo fu reso possibile in parte dagli stereotipi razzisti e dal fiorire di un razzismo basato sulle classi sociali, che, nel tradurre i conflitti sociali del mondo industriale in termini razziali, finì con l’assimilare le classi lavoratrici e “le persone senza stato” del mondo industriale ai “selvaggi” del mondo coloniale.
Come David Bates ha mostrato, i teorici del terrore credono possibile distinguere tra le espressioni autentiche della sovranità e le azioni del nemico. Essi credono anche che sia possibile differenziare, nella sfera politica, l’“errore” del cittadino dal “crimine” del controrivoluzionario. Il terrore diventa così un modo di marcare l’aberrazione nel corpo politico, e la politica viene concepita come una forza mutevole della ragione e come un tentativo fallibile, diretto a creare uno spazio dove possa essere ridotto l’ “errore”, venga affermata la verità e si possa disporre del nemico. Infine, il terrore non è legato soltanto alla credenza utopica nel potere illimitato della ragione umana: è anche chiaramente connesso ai vari racconti del dominio e dell’emancipazione, molti dei quali sostenuti dall’idea illuministica della verità dell’errore, del “reale” e del simbolico.
In ogni resoconto storico sull’ascesa del terrore è necessario fare riferimento alla schiavitù, che può essere considerata una delle prime istanze di sperimentazione biopolitica. In molti sensi, la struttura propria del sistema della piantagione e delle sue successive manifestazioni, corrisponde alla figura emblematica e paradossale dello “stato di eccezione”.
Questa figura è paradossale per due ragioni. In primo luogo, nel contesto della piantagione, l’umanità dello schiavo appare come la raffigurazione perfetta di un’ombra. La condizione di schiavo risulta da una triplice perdita: la perdita di una “casa”, la perdita dei diritti sul proprio corpo e la perdita dello status politico”.
Ecco dunque il punto conclusivo: oggi è possibile concepire un ritorno allo stato d’eccezione in cui è legittimo annientare gli esseri umani fino ad ucciderli.
Melissa Pignatelli
Giorgio Agamben, Homo sacer, Quodlibet, 2021.
Achille Mbembe, Necropolitiche, Ombre corte, 2016. Saggio introduttivo di Roberto Beneduce.
Fotografia: Nudie © Borland. Coutsesy Nino Mier Gallery. Polly Borland : Nudie, May 15 – June 19, 2021, Nino Mier Gallery 7277 Santa Monica Blvd., Los Angeles, CA 90046, www.miergallery.com
Rivista di Antropologia Culturale, Etnografia e Sociologia dal 2011 – Appunti critici & costruttivi