Pubblicato il 5 Febbraio 2022

Europa d’Oltremare: l’impatto del Covid-19 in Oceania

di Adriano Favole

Nell’ultimo capitolo del libro L’Europa d’Oltremare (Raffaello Cortina editore, 2020), che per la prima volta in Italia presenta al lettore l’Europa d’Oltremare – isole e territori europei situati nell’Oceano Atlantico, nell’Oceano Pacifico e nell’Oceano Indiano – ci si propone un duplice obiettivo: in primo luogo, fare il punto sul modo in cui alcuni Oltremare stanno affrontando la pandemia e, in secondo luogo, prefigurare alcune delle conseguenze che questo evento dirompente potrebbe avere nelle isole e territori ultramarini europei.

Una semplice occhiata ai dati relativi ai casi ufficialmente registrati di Covid-19 nel mondo ci consente alcune riflessioni significative. Al 18 aprile 2020, tra i 15 Stati in cui non si sono registrati contagi da virus Sars-Cov-2, ben 11 sono Paesi insulari dell’Oceania. Allo stesso modo, sempre nel Pacifico, molti Oltremare della Nuova Zelanda (Isole Cook, Niue, Tokelau) e dell’Australia (Cocos, Norfolk, Christmas) risultano in quella data privi di contagio. Le isole, in effetti, appaiono tra le poche parti di mondo risparmiate dalla pandemia. La situazione degli Oltremare europei, tuttavia, è parzialmente diversa da quella degli Stati insulari indipendenti e degli Oltremare neozelandesi e australiani: infatti, soltanto il Territorio di Wallis e Futuna risulta privo di contagi; a esso si aggiungono, volendo includere ancora nell’Oltremare europeo i Territori britannici fuoriusciti con la Brexit, Pitcairn nel Pacifico, Sant’Elena, Ascensione e Tristan da Cunha nell’Atlantico.

La forte mobilità che caratterizza gli Oltremare europei contribuisce a spiegare perché questi ultimi siano stati mediamente più colpiti dall’epidemia degli Stati insulari vicini. Il virus non poteva non circolare nei cordoni ombelicali che legano métropoles e micropolities. Ancora una volta, tuttavia, occorre non compiere l’errore di considerare ogni Oltremare come una totalità omogenea. La dialettica tra centri e periferie di cui abbiamo parlato in modo particolare nella Parte terza del libro L’Europa d’Oltremare (“Arcipe-logiche”) spiega perché le Isole della Lealtà e le Belep, per esempio, siano state al momento risparmiate nel contesto dell’arcipelago della Nuova Caledonia. In fondo, è un po’ la stessa ragione per cui è stato risparmiato il Territorio di Wallis e Futuna il quale, visto dal centro parigino e vista la rarefazione dei collegamenti internazionali, è di fatto una lontana periferia della Nuova Caledonia.

Un virus, o meglio gli effetti che esso provoca sugli esseri umani e le società, non è solo una questione biologica. Come ha scritto di recente Berardino Palumbo, “l’epidemia oggi in corso (quel ‘qualcosa’ che ci sta capitando) è un ‘ibrido’ che mette in luce trame e connessioni (salute e società, biologia ed economia, politica ed ecologia, geopolitiche mondiali e immaginari globali)”. L’osservazione a distanza che tento in queste pagine, nutrita di contatti telefonici e via web da parte di alcuni degli autori dei saggi qui raccolti con amici e collaboratori di campo, di fonti mediatiche ufficiali (quotidiani, radiotelevisioni) e informali (blog, pagine Facebook) indica che Covid-19 sta fungendo da catalizzatore di situazioni di fragilità. Come se alcuni dei processi in atto negli Oltremare, come se alcuni dei risvolti più vulnerabili di cui il lettore è venuto a conoscenza in queste pagine, si fossero improvvisamente accelerati e resi problematici.

Un primo ambito di riflessione riguarda la mobilità. Le isole dell’Oltremare non sono mondi isolati ma, come abbiamo più volte argomentato, snodi di relazioni che la storia pre-coloniale, il colonialismo e il post-conialismo hanno intessuto. Le isole non sono isolate, ma sono più facilmente “isolabili” delle aree continentali. Le connessioni marittime e, soprattutto, quelle aeree tra gli Oltremare e tra essi e le rispettive métropoles sono, al momento, quasi del tutto interrotte. I voli tra la Francia, la Nuova Caledonia nel Pacifico, La Réunion nell’Oceano Indiano, Guadalupa e Martinica nei Caraibi, per esempio, si limitano quasi esclusivamente a cargo che riforniscono le isole di medicinali, cibo e attrezzature divenute tristemente celebri (mascherine, guanti, respiratori). La tanto invocata “continuità territoriale” (una curiosa metafora “continentale” che considera il mare come barriera, per riprendere i temi della parte quarta del volume, “Oceano-grafie”) si è pressoché interrotta. Se gran parte del mondo vive in lockdown e in isolamento internazionale, questa situazione è particolarmente delicata per le isole.

A Futuna, l’isolamento ha immediatamente evocato la memoria della Seconda guerra mondiale, quando l’isola rimase per oltre due anni senza contatti marittimi (il primo aeroporto fu costruito solo nel 1968, in precedenza alcune merci erano paracadutate sull’isola). Quando i soldati francesi e americani arrivarono sull’isola, gli abitanti erano tornati a fabbricare vestiti di stoffa di corteccia! La situazione non è al momento così estrema, e tuttavia a Wallis e Futuna scarseggiano farmaci cosiddetti “salvavita” e generi alimentari di prima necessità. L’effetto più grave dell’attuale isolamento, tuttavia, risiede nel fatto che l’interruzione dei voli ha separato famiglie e gruppi sociali che ormai da anni avevano incorporato uno stile di vita transnazionale. Si calcola, per esempio, che quasi duemila cittadini della Nuova Caledonia che avrebbero voluto rientrare nell’arcipelago tra marzo e aprile siano bloccati in Francia o in altri Paesi. La Nuova Caledonia, come tutto l’Oltremare europeo (tranne Wallis e Futuna) ha vissuto un lungo periodo di lockdown (terminato il 20 aprile) e non è al momento chiaro quando e sottoponendosi a quali procedure (test sierologici, quarantena) i neocaledoni bloccati altrove potranno rientrare.

Stessa situazione per la Polinesia Francese e c’è chi, come Thibault Gachon, un abitante dell’atollo Fakarava (Tuamotu), ha elaborato una carta dei polinesiani in diaspora rimasti bloccati in métropole e altre parti di mondo e delle associazioni che si sono dette pronte ad aiutarli. Un centinaio di cittadini della Nuova Caledonia sono “confinati” a Figi: se le autorità neocaledoni hanno cercato di intavolare una trattativa con questo Paese al fine di organizzare un volo per riportarli sull’arcipelago, il Governo delle Figi si è detto disposto a discutere solo con il Governo metropolitano, non riconoscendo alla Nuova Caledonia l’agency di un Paese sovrano.

La riapertura dei voli tra le métropoles europee e i loro Oltremari sarà con tutta probabilità una “prova europea interna” (per quanto intercontinentale) della riapertura dei confini internazionali. L’interruzione dei rapporti internazionali e con le rispettive métropoles non è stata solo il prodotto della decisione unilaterale dei Governi centrali. In alcuni casi, anzi, sono state le autorità locali e tradizionali a precedere i Governi. È il caso per esempio di Lifou, una delle Isole della Lealtà. Fin dalla fine di febbraio, Jean-Baptiste Ukeinessö Sihaze, gran chef di Wetr (una delle tre chefferie dell’isola), paventando il rischio di contagi, aveva impedito ogni attracco di navi da crociera sull’isola, forte del fatto che l’imbarcadero sorge sul distretto di Easo di cui il grand chef è autorità tradizionale suprema. Il 18 marzo, tre giorni prima che l’Assemblea caledone emettesse il provvedimento di chiusura, lo stesso capo annunciò la chiusura dell’aeroporto, anch’esso situato sulle terres coutumières, una decisione poi ratificata dagli altri due grand chefs dell’isola. Questo episodio mostra che la consapevolezza dei rischi dell’epidemia – sedimentata da precedenti storici ben precisi come la cosiddetta “influenza spagnola” che decimò le popolazioni del Pacifico – può essere ben radicata nella memoria insulare. Anche la sassaiola che il 23 marzo ha danneggiato vetrine e automobili dell’aeroporto internazionale di La Tontouta, sulla Grande Terre della Nuova Caledonia, è stato interpretato come un “segnale” alle autorità del Paese ritenute responsabili della persistente continuità dei voli internazionali. Nel nordest del Paese, in quegli stessi giorni, numerosi barrages (chiusure di strade con alberi abbattuti o altri ostacoli) a opera di kanak, segnalavano il pericolo della malattia che métro e caledoni di ritorno rischiavano di diffondere.

A questo proposito, ma si tratta di un indizio da approfondire, diverse fonti sembrano mettere in luce che in molti Oltremare Covid-19 viene interpretato come una “malattia dei bianchi”; in Nuova Caledonia la sua diffusione viene paragonata a quella dell’aids, i cui primi casi, a quanto pare, furono registrati negli anni Ottanta a seguito della presenza di militari nel contesto degli événements, gli scontri tra indipendentisti e anti-indipendentisti. Come in gran parte del mondo, anche negli Oltremare il confinamento evoca futuri scenari di privazione di libertà individuali, di usi politici della malattia.

Allo stesso modo, è interessante registrare le forme di creatività rituale che essa induce: alle Isole della Lealtà, per esempio, i riti funebri sono stati limitati alla partecipazione dei parenti paterni, sapendo che la “normale” partecipazione dei parenti materni comporta grandi assembramenti e scambi di cibo e doni che rischiano di diffondere la malattia. Va detto anche che il virus ha fatto emergere forme di solidarietà informali che si insinuano nelle relazioni di reciprocità che spesso caratterizzano le isole. Alle Hawai’i, l’associazione Mālama Māakua che sostiene il recupero di sovranità del popolo kanaka maoli contro l’ “occupazione” statunitense delle isole ha promosso una mobilitazione locale, free kupuna face masks, distribuendo mascherine agli anziani (kupuna); e sono sempre gli anziani, memoria storico-ecologica dell’isola, a essere al centro d’iniziative spontanee dei giovani nativi. A Maré, Ouvéa e Lifou (Isole della Lealtà), i grands chefs hanno promosso la raccolta di tuberi (taro e igname) da inviare, attraverso un collegamento navale organizzato ad hoc con Nouméa e la Grande Terre, alle famiglie bloccate nel capoluogo della Nuova Caledonia. Oltre che come un gesto di solidarietà, questo atto potrebbe essere interpretato come una forma di ritualità “alternativa” o una ridefinizione creativa dei riti per la raccolta dei primi ignami, riti che le autorità tradizionali hanno sospeso in risposta alla pandemia.

Invece che ai capi tradizionali, i primi ignami sono stati offerti quest’anno alle famiglie che non hanno potuto fare il loro rientro sulle isole per l’interruzione dei collegamenti. Le risposte locali al virus risultano così “filtrate” dalle esperienze culturali. Un po’ ovunque, le reti di amicizia e parentela stanno sostenendo la permanenza prolungata dei cittadini oltremarini in altri contesti. Il tema della sovranità alimentare sta caratterizzando molte delle narrazioni attorno al post Covid-19. La (momentanea?) fine del turismo nei Caraibi e la chiusura dei voli con gli Stati Uniti, per esempio, stanno determinando penuria alimentare, in economie spesso caratterizzate da monoculture da esportazione (caffè, zucchero, frutti “tropicali”).

Da qui ha preso il via una riflessione di Governi e autorità locali sulla necessità di tornare a differenziare le colture agricole e a favorire l’autoproduzione, progettando al contempo un rafforzamento degli scambi alimentari a livello regionale. Di sovranità alimentare discutono molto anche le associazioni native hawaiane le quali, da sempre, hanno contestato la “dipendenza” in cui le Hawai’i sono state poste in relazione al cibo importato (oltre il 90%!) dagli usa. Alle Samoa, i matai hanno organizzato incontri con la popolazione per spingere i nativi a produrre più tuberi (taro e igname), alimenti base della dieta locale: se la reazione agli ultimi cicloni che hanno devastato le isole era consistita nell’incoraggiare forme di “turismo responsabile” nei cosiddetti beach fale, l’avvento del Covid-19 e la conseguente chiusura del turismo sta invitando, per converso, le popolazioni locali a rivalutare l’orticoltura di autoconsumo.

Come ha riconosciuto la ministra francese dell’Oltremare Annick Girardin in una lunga audizione al Parlamento, il Covid-19 non solo sta facendo emergere il tema della sovranità alimentare ma, nelle aree più problematiche, sta determinando problemi di fame. Si tratta nello specifico delle aree di abitazione informale e spontanea di Mayotte e delle banlieues di Cayenne (in Guyana Francese) in cui vivono strati poveri della popolazione e immigrati brasiliani, caraibici e sudamericani. L’invio di alcuni aerei cargo con scorte di panier-repas mostra la gravità della situazione. Già colpita da una seria epidemia di dengue, con casi non rari di tubercolosi e lebbra, Mayotte sembra soffrire in modo particolare degli effetti “collaterali” della pandemia. Gli abitati spontanei di latta costruiti soprattutto per riposare la notte, ma del tutto inadeguati nella calura del giorno, si stanno rivelando luoghi impossibili di confinamento. L’acqua potabile, di cui l’isola è particolarmente carente, è arrivata a costare fino a 6 euro al litro e il Governo ha annunciato una politica di calmieramento dei prezzi nei prossimi mesi. È bene ricordare che, a La Réunion, come a Mayotte e in Guyana Francese, negli ultimi anni si sono verificate rivolte e movimenti di piazza proprio contro la vie chère, il “caro vita” che colpisce molti Oltremare. Un chilo di cipolle, alimento base della cucina kari di La Réunion, in genere importato da India e Pakistan a prezzi molto concorrenziali, ha raggiunto anche i 10 euro sui mercati dell’isola. Recisi i legami regionali e globali, i problemi alimentari diventano particolarmente forti in quelle isole in cui l’autoproduzione è stata sostituita da monoculture per il mercato globale. Laddove invece l’agricoltura o l’orticoltura (e il controllo delle terre) sono rimaste saldamente nelle mani native il problema è decisamente minore.

“Basta tornare a guardare il mare e la terra e prenderne i frutti: a Futuna non abbiamo timore della fame, la nostra preoccupazione è per les enfants (“i figli, i nostri giovani”) rimasti isolati in métropole o in Nuova Caledonia”. Gli studenti dell’Oltremare in métropole, di cui ci siamo occupati nel capitolo 2, già alle prese con le difficoltà di chi è “straniero” pur vivendo nella propria Nazione, sono particolarmente vulnerabili. Purtroppo, i suicidi di giovani maoresi sembrano essere cresciuti, a testimonianza di una sofferenza diffusa e, non a caso, nel suo discorso alla Nazione del 13 aprile 2020, Emmanuel Macron ha riservato un pensiero “agli studenti d’Oltremare in métropole” e alla necessità di sostenerli con misure speciali. Potranno nei prossimi mesi e anni riprendere la mobilità? E che ne sarà delle Università dell’Oltremare che contano su un incessante movimento di docenti e studenti?

La grande sfida degli Oltremare di fronte al Covid-19, tuttavia, coincide con quella che l’intera Europa sarà chiamata ad affrontare nei prossimi mesi. Se il progetto europeo condiviso si indebolirà, se la solidarietà e la collaborazione internazionale verranno meno a favore di progetti sovranisti, se quelle forme di late sovereignty di cui abbiamo parlato nell’Introduzione lasceranno spazio (di nuovo) a politiche aggressive e unilaterali degli Stati nazionali, gli Oltremare rischiano di ripiegare (di nuovo) su un rapporto post-coloniale a senso unico con le rispettive métropoles. Il loro carattere periferico e “dipendente” non potrà allora che tornare ad accentuarsi. L’Europa ha da scegliere se essere un insieme di isole artificialmente separate, in una sorta di lockdown nazionale permanente, o, come auspicato in questo volume, un arcipelago di isole in connessione.

Adriano Favole

L’Europa d’Oltremare, a cura di Adriano Favole, Raffaello Cortina editore, 2020, Milano

Cartina politica dell’Oceania in Wikimedia Commons, CC-BY

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