Pubblicato il 1 Dicembre 2022

Le parole sono azioni

di Melissa Pignatelli

Parlare o non parlare? Ascoltare o dar voce a fiumi di parole? Dire per non fare o dire solo ciò che si conosce? Parlare per ottenere delle cose o per intimorire e controllare? Parlare per colmare la paura del silenzio o comunicare per condividere le esperienze della vita?

Nell’atto del parlare, la comunicazione che avviene mette in relazione due o più persone che hanno uno scambio. Prima di parlare possono sorgere dubbi e preoccupazioni, durante le conversazioni ci possono essere delle modifiche emotive che cambiano le direzioni della comunicazione, dopo le parole ci possono essere degli effetti causati dalle parole stesse: quindi il parlare è un’attività che può sembrare “naturale” o addirittura banale ma che in realtà è ben più complessa di quanto non appaia.

L’insieme della comunicazione linguistica è un’attitudine peculiare degli esseri umani ed è descritta e studiata nelle sue varie forme da linguisti illustri di nome John L. Austin, John Searle, Ludwig Wittgenstein, Paul Grice. 

Secondo la distinzione operata da Austin nella teoria atti linguistici, nel momento stesso in cui si pronuncia una frase si compie un’azione e quest’azione comprende tre aspetti. La prima è l’azione del dire (atto locutorio, in gergo) che comporta la scelta di certe parole ed il loro uso in una forma grammaticale specifica. Il secondo aspetto riguarda l’intenzione della comunicazione (l’atto illocutorio) che si capisce dal tono della voce che può essere interrogativo, esclamativo, perentorio, scherzoso, ecc. e infine l‘effetto che la frase vuole produrre (l’atto perlocutorio) sulla persona che recepisce la comunicazione.

Come ha ben evidenziato Austin (e si possono leggere gli appunti della professoressa Marina Sbisà sulla teoria degli atti linguistici), pronunciare certi enunciati equivale a compiere azioni linguistiche specifiche che hanno un certo effetto sull’interlocutore, ovvero conseguenze materiali. 

Prendiamo un esempio concreto: scegliamo la parola “alzati”, aggiungiamo l’intenzione, pensiamo all’effetto che vogliamo ottenere sul nostro interlocutore, e  quindi pronunciamo a voce alta:

  • “Vieni” (un ordine)
  • Vieni? (un desiderio)
  • Vieni! (un’esclamazione di felicità)

L’effetto sull’interlocutore dipenderà dalla relazione che ha con chi gli parla, dalla sua propria volontà e predisposizione, dalla sua comprensione, ecc. La parola scelta, insieme al tono e all’effetto che persegue chi la pronuncia avrà dunque una conseguenza. L’insieme delle espressioni, modi di dire, comportamenti non verbali, saranno riconosciuti dall’interlocutore che risponderà ed agirà di conseguenza (tutto questo processo è studiato dalla psicolinguistica, una materia piuttosto complessa), l’intreccio tra linguaggio e comportamento costituiscono il cuore della comunicazione che nel complesso può essere studiata dagli psicologi.

Quello che è utile ricordare degli studi dei linguisti è che le parole sono azioni, le parole fanno delle cose, le parole hanno delle conseguenze.

Avere dunque la consapevolezza di ciò che si dice, di ciò che si intende, di ciò che si sottintende e quindi aver presente le conseguenze possibili di ciò che si dice o meno sembrerebbe assolutamente necessario per lo svolgimento di relazioni e comunicazioni chiare.

Perché molti capi di stato, personaggi, politici, esponenti della società civile, persone comuni, padri, madri, figli, figlie, amanti, compagni, ex, amici, frequentazioni di questo periodo paiono aver dimenticato che le cose che dicono hanno delle conseguenze concrete a livello personale, locale, internazionale, globale.

Quindi tra parlare e non parlare, al di là del dubbio amletico, è bene avere chiaro sia ciò che si desidera comunicare che l’effetto che si può causare. Il tutto per non dover ritornare ai più basici, ma forse più sicuri, segnali di fumo.

Melissa Pignatelli

Marina Sbisà, Gli atti linguistici, Feltrinelli, 1978.

Saatchi art: Link to Jc Lenochan, Language is never neutral, collage, acrylic on canvas

 

 

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