Pubblicato il 24 Luglio 2023

Sulla funzione psicologica del lavoro e l’uso del linguaggio

di Gloria Ballestrasse

“Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” recita l’Articolo 4 della Costituzione della Repubblica Italiana disciplinando così il lavoro, come diritto e dovere di tutti i cittadini italiani. Se, indubitabilmente un meccanico concorre con la sua attività allo sviluppo del patrimonio materiale del paese; lo stesso meccanico può ambire, a suo modo, al progresso spirituale dell’humus che lo alimenta e che, a sua volta, contribuisce ad alimentare attraverso i suoi gesti quotidiani?

Il linguista John L. Austin, in Come fare le cose con le parole (Marietti, 2021), sottolinea che ogni dire è un fare. Allora, per tentare di comprendere l’interrogativo di cui sopra, a cui il psico-sociologo Yves Clot tenta di rispondere con la sua opera La funzione psicologica del lavoro (Carocci, 2006), si parta dall’attività che per eccellenza contraddistingue l’essere umano. Clot evidenzia infatti il parallelismo rintracciabile tra funzione psicologica del lavoro e uso del linguaggio. Attraverso il confronto con la linguistica di Michail Bachtin possiamo capire perché due persone che non si sono mai incontrate prima riescono a portare a termine un lavoro svolto congiuntamente, come parte di una stessa squadra.

Nella concezione di Bachtin, si parte da un superamento del pensiero saussuriano secondo cui la parole costituisce l’appropriazione individuale della langue, intesa quest’ultima come corpus di segni e regole. La langue sarebbe, sempre secondo Saussure, da far fiorire individualmente tramite l’assunzione di una forma concreta nella parole. Bachtin propone un’intermediazione tra corpus di segni e appropriazione individuale della langue tramite la parole: il contesto sociale concreto influenzerebbe il modo in cui ci si appropria del corpus standard di segni e regole: “Se nello scambio fosse necessario creare per la prima volta ciascuno dei nostri enunciati, tale scambio sarebbe impossibile.” (Bachtin, 1984, p. 285). Clot sottolinea che “il voler dire si realizza nella scelta di un genere.” (pag. 54-55).

Passiamo ora alla psicologia del lavoro, e in particolare alla terza via di cui Clot si fa portavoce – che integra e supera da un lato la psicologia ergonomica di stampo cognitivo, dall’altro la psicodinamica del lavoro di Dejours. Dunque, con genere professionale Clot intende riferirsi alle norme e all’ordine tipici di un referenziale comune, all’interno di un contesto condiviso. Si tratta del modo di fare, delle norme negoziate nel tempo da uno specifico collettivo lavorativo – una storia condivisa, perché nel tempo incarnata da soggetti viventi, e poi di memoria impersonale, in quanto il genere si pone come intermediario tra soggetto, gli altri soggetti e quell’oggetto che si colloca sia al livello di origine che di occasione del lavoro. Inoltre, è proprio nell’interpretazione del genere da parte di un soggetto che lo stile personale trae origine, attraverso la catacresi e la ri-significazione che egli compie. Gli stili, costituendo varianti del genere, innoverebbero e amplierebbero a loro volta il genere stesso, rendendolo un vero e proprio intercalare sociale.

La similitudine prosegue oltre. Come la soggettività si costituisce nel dialogo, diretto all’interlocutore, verso il proprio oggetto e a partire dalle scelte stilistiche compiute nell’occupazione di quell’attività che è, appunto, il dialogare, così il lavoratore che si appropria del genere professionale edifica la propria identità soggettiva grazie a quell’attività occupata rispetto alle altre pre-occupate, e in quanto tali, possibili – cioè altrettanto reali.

Prima di passare a un esempio quotidiano, un’ultima evidenza del sodalizio che lega genere linguistico e genere d’attività. Clot paragona il genere professionale a un entimema sociale. Un entimema è un sillogismo che Aristotele definì retorico, cioè uno in cui una delle premesse è soltanto probabile. Lo scopo dell’entimema è pertanto persuasivo – non dimostrativo. Le norme in un contesto lavorativo sono sottointese, negoziate tacitamente e non definitive; prescrittive, ma pronte a essere arricchite da innovazioni stilistiche funzionali.

Pensiamo ora a Marta, maestra d’asilo. L’obiettivo che Marta si è prefissata per la lezione del giorno è quello di fare acquisire ai bambini competenze in fatto di uso di tempere e colori ad acqua. Per riuscirvi, Marta mostra ai bambini un libro, che riporta l’immagine dell’impronta di una mano. Propone lo stesso compito ai bambini, permettendo loro di scegliere il colore che preferiscono, e predisponendo una tela bianca su cui lasciare ognuno la propria traccia. I bambini iniziano, ma poco dopo Marco si stanca di ripetere lo stesso gesto, reputandolo monotono. Decide che è più interessante studiare la sfumatura che il colore acquisisce quando viene mischiato con l’acqua. Anche Luca si annoia, allora inizia a notare come, rigirando tutta la manina sul foglio, l’orma si deforma. Giulia commenta che l’invenzione di Luca assomiglia a una farfalla. Alla fine ci si rende conto della soggettivazione di Marco – diversa da quella di Luca e di Giulia – a partire dallo stesso compito, cioè l’acquisizione di competenze sull’uso di colori ad acqua, tipica del contesto e referenziale comune dell’asilo. Anche Marta si è appropriata a modo suo del genere professionale tipico della maestra d’asilo: tra le tante possibili, ha occupato proprio l’attività del mostrare il libro ai bambini, per poi permettere loro di sperimentarsi in azione.

È così che la funzione psicologica del lavoro consiste nella costante appropriazione del genere professionale, che rende il soggetto pienamente tale, conferendo a lui o lei la possibilità di realizzarsi come persona attraverso il lavoro. In questo modo, fra l’altro, ci si allontana radicalmente dalla concezione tayloristica della One best way, secondo cui un solo metodo – il migliore – doveva essere trasmesso per portare a termine il compito che veniva affidato agli operai. Secondo Clot, anche in un’industria ci sarebbe posto per la personalizzazione del gesto, per il cosiddetto job crafting, come parte integrante del modo unico e insostituibile di lavorare di un soggetto. Nel sesto e ultimo capitolo, Clot riporta il racconto dell’operaio Durand per dimostrare che anche un’operazione apparentemente sterile e ripetitiva come il montaggio con il piede può essere personalizzata. E poi, “Ripetiamo che non si tratta di picchiare a caso. Certo, possono dare dei gran calci su una finitura. Tutto sta nel saper dove picchiare e dove avvitare. Parola di specialista”. (Durand, 1990, pag. 30).

 

Gloria Ballestrasse

Yves Clot, La funzione psicologica del lavoro, Carocci, 2006

“Di parole faccio arte” Immagine Frottage oriente occidente, Giorgio Miliani per Whiteligh Gallery, Milano, 2018

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