Pubblicato il 2 Novembre 2023

Vita a Gaza e fuori da Gaza, un racconto sul quotidiano palestinese

di Melissa Pignatelli

Tornare a casa passando davanti alle tende del vecchio vicinato a cui è stata distrutta la casa dai bulldozer con gli alberi che rimangono fumanti per giorni, guardare i moncherini delle proprie gambe  sulla sedia a rotelle sognando notti roventi con la moglie che ha preferito andarsene, osservare i gesti della mamma che si mette il solito vecchio vestito da casa per iniziare a cucinare, rendersi conto che i vicini hanno dato informazioni in cambio di cure ospedaliere per la madre malata e così sono diventati delle spie, ascoltare la storia della figlia dell’amica di famiglia che ha tradito tutti facendosi saltare in aria, sognare la fidanzata inglese attivista dei diritti umani, andare a fare volontariato al centro, provare ad applicare per una borsa di studio a Londra, sentirsi di sfidare cecchini e checkpoint per il solo fatto di esistere, sperare di avere acqua sufficiente per fare la doccia o luce per fare i compiti: questa è la vita quotidiana a Gaza che ci racconta Selma Dabbagh attraverso le vicende immaginate di una famiglia di palestinesi che tenta di continuare una vita normale malgrado la situazione di guerra perenne tra Israele e quel che rimane della Palestina.

Oltre al quotidiano che tende al distopico, il romanzo di Selma Dabbagh Fuori da Gaza (Il Sirente), racconta di Gaza città sotto assedio, di Gaza ridotta ad enclave palestinese in territorio israeliano e dell’intrico che l’essere palestinesi significa anche per chi vive fuori da Gaza.

Nel romanzo dell’anno per il Guardian nel 2012 e 2013, Rashid, uno dei protagonisti, riesce a lasciare la soffocante vita di Gaza, stretta dalla striscia, per respirare a Londra sogni di normalità, di vita tranquilla e dignitosa, di amicizia e rispetto, di routine di lavoro e famiglia, di sorrisi e barzellette, di bar e vicinato, di leggerezza e di serenità, di piatti saporiti di cucina di casa.

Ma la realtà della vita fuori da Gaza di Rashid non porta tutto questo. Infatti, il primo sforzo, quello della valigia preparata a casa prima dell’esilio, quella dei vestiti migliori scovati con i pochi mezzi a disposizione, producono questo genere di reazione nell’amata fidanzata:

Lisa si era messa a ridere quando aveva visto il maglione che la madre di Rashid gli aveva messo in valigia per andare a Londra: “Non puoi andare in giro con quella fantasia lì Rashid, “sul serio”! Sembri un tecnico dei computer, o qualcosa del genere”

Così per prima cosa ti fanno capire che non sei adatto, che non ti vesti in maniera giusta, poi quando parli capisci dagli sguardi e dai sorrisetti che non dici le cose giuste o che non hai l’accento giusto, poi quando esci capisci che per gli altri non sai riconoscere le cose che vanno di moda, i locali giusti, le cose giuste. In maniera molto efficace, la morale “giusta” della vita borghese fuori da Gaza è resa da Selma Dabbagh come una coltre che a tratti sembra essere quasi più soffocante della pressione israeliana sulla striscia stessa,

Di nuovo Rashid pensò a Lisa. Non poteva mai chiamarla la sua ragazza davanti a lei, tanto meno davanti a persone che la conoscevano, nel caso glielo riferissero. Ma che altro era se non la sua ragazza? Dormivano insieme no?

Quando aveva detto a Lisa che l’amava le erano comparse sul viso due espressioni diverse, nessuna delle quali prometteva bene: una di “indulgenza”, l’altra di “disgusto”. Si, gli era sembrata disgustata. Solo così si poteva descrivere.

Così lentamente, il sogno della vita fuori da Gaza si colora delle tonalità della realtà londinese: la casa puzza di cane bagnato, il professore emana un odore stantio di vestiti intrisi di aria umida, il tè profuma come l’acqua di scolo, la carne sembra risciacquata nell’acqua fredda, i toast hanno il sapore delle carcasse di  insetti compresse. La vita a Londra sembra chiudersi lentamente intorno al corpo di Rashid così come le paludi inghiottono i corpi morti.

Nel quotidiano in Inghilterra, le idee, il vissuto della vita a Gaza di Rashid non sembrano trovare un posto loro, ma paiono rimanere come un’ologramma utile alle idee degli altri, di quelli che si occupano di Diritti Umani, come la sua fidanzata Lisa, o dei diplomatici rampanti come il giovane “amico” del Foreign Office al quale va raccontato tutto quel che succede a Gaza. La comparsa palestinese deve  esibirsi con una certa nonchalance borghese, come la sera a cena, e sempre come una scimmia ben addestrata ed ubbidiente, per non urtare le consuetudini della società benpensante, la quale vuole solo osservare i trofei esotici senza realmente condividerne l’esistenza, così

 A Lisa piaceva molto l’effetto che faceva Rashid, tra le mura di casa dei suoi genitori. Era come se si fosse portata dietro un vistoso pezzo di bigiotteria, scovato in un negozio di paccottiglia e solo in quel momento, su uno sfondo neutro, potesse apprezzarne la stravaganza. 

Così piano piano il protagonista capisce che “la Palestina lo occupa”, che l’identità palestinese gli è stata cucita addosso con tutti i suoi stereotipi, per l’inerzia della storia arrivata come l’occupante per il flusso degli eventi nei quali si è trovato. Come ricorda la brillante figura del professor Myrnes nel romanzo, lui un figlio cadetto mandato dagli Inglesi nelle colonie, si ritrova ad eseguire gli ordini di Sua Maestà in Palestina:

Come membri della Polizia di Mandato ci veniva chiesto di andare in giro per i villaggi degli arabi a cercare le armi. Era il 1947 e la tensione era alta. [ …]

Una volta impicammo un uomo.  Avevamo trovato una rivoltella tedesca arrugginita e un caricatore sotto la vera del pozzo. Ci disse che aveva dato via metà del suo bestiame per comprarla. Lo impiccammo per quello. Tutto giustificato dalle Leggi di Emergenza del Governo di Sua Maestà in Palestina, le stesse leggi che adesso vengono usate per le chiusure, le confische delle abitazioni, il coprifuoco, le demolizioni, e tutto il resto.

Tutte inglesi quelle leggi. […]

Lo appendemmo come un capretto quell’omone. Non era il mukhtàr, il capovillaggio, ma poco ci mancava. Baffi enormi e un filtro di sigaretta in bocca. Non sono mai riuscito non so perché a togliermi di testa quel filtro. Un tipo molto dignitoso. Sotto ogni punto di vista era un vero signore. Che vergogna. […]

Vedi quando uccidevamo gli arabi perché nascondevano un paio di pallottole arrugginite, noi stavamo dando l’esempio agli immigrati ebrei, gli mettevamo in mano le armi. Poi gli ebrei decisero che non stavamo facendo abbastanza così iniziarono ad attaccarci.

Bè naturalmente tu conosci il resto della storia.

Come osserva il professore di Rashid dopo avergli riletto il passaggio di un libro:

Queste pagine dimostrano come alcuni immigrati ebrei in Palestina rimasero assolutamente scioccati. Da una parte c’erano loro, appena scampati dalle fauci infernali della Germania nazista, o di qualche altro posto in Europa. Arrivarono in Palestina, questa Terra Santa, il luogo del nuovo inizio, dove presto si trovarono ad essere testimoni delle tattiche usate dalla loro gente contro gli arabi – i palestinesi – così come erano state usate contro di loro. 

Assente dentro Gaza, assente fuori da Gaza il corpo dei Palestinesi sembra infine aver smesso di pulsare, di  avere una vita propria, diventando un corpo quasi senza voce al quale solo ogni tanto è concesso un respiro. 

Melissa Pignatelli

Articolo pubblicato il 22 Aprile 2022

Selma Dabbagh, Fuori da Gaza, traduzione dall’Inglese di Barbara Benini, Editrice Il Sirente

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