Pubblicato il 22 Gennaio 2025

Anarchismo e immaginario anticoloniale, l’esperimento di “astronomia politica” di Benedict Anderson

di Melissa Pignatelli

Se in una notte tropicale senza luna, durante la stagione secca, si alza lo sguardo al cielo, si può osservare un manto di stelle immobili, tenute assieme solo dall’oscurità e dall’immaginazione. C’è una tale serena bellezza in tutto questo che è necessario compiere uno sforzo mentale per rammentare come quelle stelle siano in realtà in perenne e irrequieto movimento, sospinte da un luogo all’altro dalla forza invisibile dei campi gravitazionali di cui sono, ineluttabilmente, attive componenti. È questa la caldea eleganza del metodo comparativo, il quale mi ha permesso ad esempio di giustapporre i vari nazionalismi – il «giapponese» e l’«ungherese», il «venezuelano» e l’«americano» l’«indonesiano» e lo «svizzero» – pur mantenendo ciascuno la propria splendente luce costante, distinta, eppure unitaria.

Quando nella Haiti rivoluzionaria, afflitta dalla febbre gialla, i soldati polacchi agli ordini del generale Charles Leclerc, inviato da Napoleone per reinstaurare la schiavitù, sentirono i loro avversari intonare, al calar della notte, la Marsigliese e il Ça ira!,  Reagirono a questo sonoro rimprovero rifiutandosi di obbedire all’ordine di massacrare i prigionieri di colore. Se l’illuminismo
scozzese fu fondamentale per l’insurrezione anticoloniale americana, i movimenti nazionalisti indipendentisti ispano-americani furono invece strettamente legati alle correnti universaliste del liberalismo e del repubblicanesimo. Allo stesso modo, il romanticismo, la democrazia, l’idealismo, il marxismo, l’anarchismo e persino il fascismo ebbero, in misura variabile, una dimensione globale e la capacità di collegare nazioni diverse. Il nazionalismo, l’elemento con maggior valenza, si è così combinato con gli altri secondo modalità e tempistiche differenti.

Questo libro è un esperimento che prende le mosse in quell’ambito che Melville avrebbe definito «astronomia politica», poiché prova a tracciare una mappa della forza gravitazionale esercitata dall’anarchismo sui movimenti nazionalisti militanti sviluppatisi ai poli opposti del globo. In seguito al collasso della Prima Internazionale e alla morte di Marx, nel 1883, l’anarchismo, con la sua caratteristica pluralità di manifestazioni, ha rappresentato l’elemento dominante all’interno del panorama della sinistra radicale dichiaratamente internazionalista.

In due delle principali personalità appartenenti alla nuova generazione che non si rispecchiava nel marxismo dominante, esso aveva trovato un convincente teorico, Kropotkin (di ventidue anni più giovane di Marx), e un leader e attivista vivace e carismatico, Malatesta (nato trentatré anni dopo Engels). Ma non si trattava semplicemente di questo: sebbene l’anarchismo avesse spesso attinto al torreggiante edificio del pensiero marxista, in un’epoca in cui l’emersione di un proletariato industriale, inteso in senso stretto, si limitava essenzialmente ai paesi dell’Europa del Nord, il movimento anarchico mirava a coinvolgere anche contadini e lavoratori agricoli. Inoltre, contrariamente al marxismo istituzionale dell’epoca, in nome della libertà individuale esso contemplava anche la partecipazione di scrittori e artisti «borghesi». Per di più, ostile quanto il marxismo all’imperialismo, l’anarchismo non nutriva pregiudizi teoretici nei confronti dei «piccoli» e «astorici» nazionalismi, inclusi quelli provenienti dal mondo coloniale. Gli anarchici furono, infine, più rapidi a cogliere le potenzialità insite negli importanti flussi migratori transoceanici dell’epoca: Malatesta trascorse quattro anni a Buenos Aires, qualcosa di inconcepibile per Marx o Engels che non lasciarono mai l’Europa occidentale, e il Primo Maggio celebra la memoria dei migranti anarchici, e non marxisti, che furono giustiziati negli Stati Uniti nel 1887.

Al di là di questa premessa, le ragioni che mi hanno spinto a focalizzare la ricerca sugli ultimi decenni del diciannovesimo secolo sono molteplici. Il fatto che le ultime insurrezioni nazionaliste nel «Nuovo Mondo» (Cuba nel 1895) e le prime in Asia (Filippine nel 1896) abbiano avuto luogo quasi contemporaneamente non è casuale. Gli abitanti di quelli che furono gli ultimi baluardi del leggendario impero globale spagnolo, cubani (ma anche portoricani e domenicani) e filippini, non si limitarono a studiare e informarsi reciprocamente sulle storie e le vicende dei rispettivi paesi, ma coltivarono cruciali rapporti personali e, per un certo periodo, organizzarono le proprie azioni in maniera coordinata. Sebbene entrambe le popolazioni siano state infine schiacciate dalla stessa brutale autorità che aspirava ad assumere il ruolo di potenza egemone a livello mondiale, dal punto di vista storico una tale coordinazione globale non aveva precedenti. Essa non risultò da un contatto diretto tra gli abitanti delle colline della provincia cubana di Oriente e quelli della cittadina filippina di Cavite, ma si realizzò attraverso la mediazione dei loro «rappresentanti» che vissero a Parigi e, in misura minore, a Hong Kong, Londra e New York.

I nazionalisti cinesi leggevano a loro volta con attenzione i giornali che riportavano gli eventi che si stavano verificando a Cuba e nelle Filippine – nonché la lotta dei nazionalisti boeri contro l’imperialismo inglese, studiata anche dai filippini – per apprendere come «fare» la rivoluzione, l’anticolonialismo e l’antimperialismo. In misura diversa, tanto i filippini quanto i cubani trovarono i propri alleati più affidabili negli anarchici francesi, spagnoli, italiani, belgi e inglesi, diversi tra loro e spesso mossi da motivazioni non nazionaliste.

Ciò che rese possibile la coordinazione di questi gruppi fu l’emergere, negli ultimi due decenni del diciannovesimo secolo, di quella che si potrebbe definire una «prima globalizzazione». L’invenzione del telegrafo fu seguita a stretto giro da un gran numero di innovazioni tecnologiche, incluso il posizionamento di cavi sottomarini transoceanici e così, in breve tempo, il «telegramma» divenne uno strumento di comunicazione che gli abitanti delle città di tutto il pianeta potevano dare per scontato. Nel 1903, Theodore Roosevelt inviò a se stesso un telegramma che fece il giro del mondo in nove minuti. L’istituzione dell’Unione Postale Universale, nel 1876, venne facilitata da una più efficace e affidabile circolazione globale di lettere, riviste, quotidiani, fotografie e libri, mentre la nave a vapore, sicura, veloce ed economica, favorì migrazioni di massa attraverso paesi, imperi e continenti che non avevano precedenti. Inoltre, lo sviluppo di una rete ferroviaria sempre più capillare favorì lo spostamento di milioni di persone e innumerevoli merci all’interno dei confini nazionali e coloniali, collegando le regioni interne più remote sia tra loro sia ai porti e alle capitali.

Nel corso degli ottant’anni intercorsi tra il 1815 e il 1895, il mondo ha essenzialmente vissuto un’epoca di stabilità conservatrice durante la quale quasi tutti gli Stati, ad eccezione delle Americhe, erano governati da monarchie autocratiche o costituzionali. Le tre guerre più lunghe e sanguinose di quel periodo ebbero luogo nella periferia del sistema-mondo: le guerre civili in Cina e negli Stati Uniti, la guerra di Crimea sulle coste settentrionali del Mar Nero, e la terribile guerra che negli anni Sessanta dell’Ottocento coinvolse il Paraguay e i suoi potenti vicini. In Europa, le schiaccianti vittorie di Bismarck sull’Austro-Ungheria e sulla Francia furono rapide e non causarono ingenti perdite di vite. Inoltre, la superiorità industriale, economica, scientifica e finanziaria del continente era tale che, fatta eccezione per i moti indiani, in Asia, Africa e Oceania l’imperialismo europeo si poté forgiare ed espandere senza incontrare resistenze armate efficaci, mentre il capitale cominciò a circolare rapidamente e senza particolari restrizioni attraverso i confini nazionali e imperiali dell’epoca.

Tuttavia, all’inizio degli anni Ottanta dell’Ottocento si iniziarono a percepire le prime avvisaglie di quella che viene comunemente ricordata come Grande Guerra, o prima guerra mondiale. I venticinque anni seguiti all’uccisione dello zar Alessandro II, avvenuta nel 1881 per l’esplosione di una granata lanciata dal gruppo populista Narodnaja Volja [Volontà del Popolo], furono segnati da
una lunga lista di omicidi: un presidente francese, un monarca italiano, un’imperatrice austriaca e il suo legittimo erede, un re portoghese con la sorella, un primo ministro spagnolo, due presidenti americani, un sovrano greco, un re serbo, e diversi potenti politici conservatori in Russia, Irlanda e Giappone.

Ovviamente un numero maggiore di attentats non andò a buon fine, tra questi i primi e più spettacolari furono quelli realizzati dagli anarchici, seguiti a strettissimo giro dai nazionalisti. Nella maggior parte dei casi, la risposta immediata consistette nella promulgazione di draconiane leggi «antiterrorismo», nell’attuazione di esecuzioni sommarie e in un repentino aumento del ricorso alla tortura da parte della polizia, segreta o meno, e dell’esercito. Tuttavia, i perpetratori di tali atti, alcuni dei quali potrebbero essere definiti i primi attentatori suicidi, consideravano le proprie azioni un messaggio rivolto a un pubblico internazionale, composto da agenzie di stampa, giornali, progressisti religiosi, classe operaia, organizzazioni contadine e via di seguito.

La competizione imperialista, che fino al 1880 era stata appannaggio di Gran Bretagna, Francia e Russia, aveva cominciato a intensificarsi in seguito alla comparsa di nuovi attori quali la Germania in Africa, Asia nord-orientale e Oceania, gli Stati Uniti sull’altra sponda del Pacifico e nei Caraibi, l’Italia in Africa e il Giappone nell’Asia orientale. Inoltre, in molti di questi luoghi le forme di resistenza organizzata avevano cominciato ad assumere tratti più moderni guadagnando in efficacia. Negli anni Novanta dell’Ottocento, la Spagna dovette inviare la più grande forza armata dell’epoca al di là dell’Atlantico nel tentativo di sedare l’insurrezione di Martí a Cuba, mentre nelle Filippine essa dovette confrontarsi con il montante movimento nazionalista, che alla fine non riuscì a reprimere.

Nel frattempo, in Sudafrica i boeri infliggevano il colpo di grazia all’impero britannico ormai in disfacimento. Tale è il proscenio sul quale i principali protagonisti di questo libro hanno recitato i loro vari ed erranti ruoli. Per restituire un’immagine più vivida, si può dire che il lettore incontrerà diversi italiani in luoghi lontani quali l’Argentina, il New Jersey e i Paesi Baschi, e alcuni portoricani e cubani ad Haiti, negli Stati Uniti, in Francia e nelle Filippine. E si racconteranno le vicende di filippini in Belgio, Austria, Giappone, Francia, Hong Kong e Gran Bretagna, ma anche di giapponesi in Messico, San Francisco e Manila, di tedeschi a Londra e in Oceania, di cinesi nelle Filippine e in Giappone, e di francesi in Argentina, Spagna ed Etiopia.

In linea di principio, lo studioso potrebbe scegliere come punto d’ingresso per tale vasta rete rizomatica uno qualsiasi di questi luoghi: la Russia lo porterebbe a Cuba, il Belgio in Etiopia e il Puerto Rico in Cina. Ma questo libro parte dalle Filippine per due semplici ragioni. La prima è che le Filippine rappresentano un luogo al quale sono profondamente legato e che ho studiato, seppur in modo discontinuo, per circa vent’anni; la seconda è che, pur trovandosi all’estrema periferia del sistema-mondo, per un breve frangente dell’ultima decade dell’Ottocento le vicende filippine hanno assicurato al paese una risonanza mondiale mai più sperimentata. Un’ulteriore ragione, seppur secondaria, è data dal materiale di cui dispongo. I tre uomini le cui vite costituiscono il collante di questo testo sono nati all’inizio degli anni Sessanta dell’Ottocento, a tre o quattro anni di distanza l’uno dall’altro, e hanno vissuto nella beata epoca che ha preceduto l’avvento di fotocopie, fax e internet. Essi hanno scritto copiosamente: lettere, pamphlet, articoli, saggi e romanzi, tutti stilati con penne a inchiostro indelebile su una carta che si pensava quasi eterna. (Per inciso, oggi gli archivi statunitensi non accettano più materiali fotocopiati o in formato elettronico, perché i primi diventeranno illeggibili nel giro di vent’anni, e i secondi, in un arco di tempo ancora più breve, saranno accessibili solo a costi esorbitanti a causa della rapida evoluzione delle innovazioni tecnologiche).

Ciò detto, uno studio che, seppur superficialmente, ci porta a Rio de Janeiro, Yokohama, Gand, Barcellona, Londra, Harar, Parigi, Hong Kong, Smolensk, Chicago, Cadice, Port-au-Prince, Tampa, Napoli, Manila, Litoměřice, Cayo Hueso e Singapore richiede uno specifico stile narrativo e compositivo. Un tale stile si regge su due elementi: il secondo, dal punto di vista storico, è un
montaggio alla Ėjzenštejn, mentre il primo rimanda al romanzo d’appendice di cui Charles Dickens e Eugène Sue furono i principali pionieri. Al lettore viene dunque richiesto di immaginare di trovarsi di fronte a un film in bianco e nero o a un romanzo manqué, la cui conclusione va al di là dell’orizzonte contemplabile dallo stremato scrittore.

Vi è inoltre un ulteriore fardello di cui il buon lettore dovrebbe essere disposto a farsi carico. Alla fine del diciannovesimo secolo non esisteva ancora un’orribile «lingua internazionale» sempre più degradata dagli utilizzi commerciali. I filippini scrivevano agli austriaci in tedesco, ai giapponesi in inglese e comunicavano tra loro in francese, spagnolo o tagalog, con alcune incursioni in quella che è stata l’ultima meravigliosa lingua internazionale: il latino. Alcuni conoscevano rudimenti di russo, greco, italiano, giapponese e cinese. Un telegramma poteva fare il giro del mondo in pochi minuti, ma una comunicazione reale necessitava il vero radicato internazionalismo del poliglotta, e i leader filippini erano particolarmente versati per muoversi con agio in questa Babele mondiale.

Infatti, sebbene fosse compresa da meno del 5% della popolazione dell’arcipelago, la lingua del nemico politico di molti filippini era anche la lingua della sfera privata, in parte perché la maggior parte di essi non comprendeva il tagalog, la lingua locale della regione di Manila e dintorni, che non poteva essere utilizzato per comunicare al di fuori della nazione. Di conseguenza, molti parlanti di lingue locali rivali, soprattutto il cebuano e l’ilocano, preferivano ricorrere allo spagnolo, nonostante il rischio di essere considerati elitari e persino collaborazionisti. Per restituire al lettore un’immagine il più possibile vivida del tramonto di tale mondo poliglotta, questo testo riporta le fonti originali nelle diverse lingue che i suoi protagonisti filippini utilizzarono per scriversi tra loro e per rivolgersi a persone di diverse nazionalità.

Benedict Anderson

 

Introduzione pubblicata in anteprima in occasione dell’uscita del titolo in libreria, da Melissa Pignatelli in collaborazione con la casa editrice Elèuthera

Benedict Anderson, Anarchismo e immaginario anticoloniale. Sotto tre bandiere, prefazione di Stefano Boni, Elèuthera, 2025

Fotografia, Albero nella notte stellata, di Laurent Emmanuel, 2025, che ringraziamo per la gentile concessione

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