Pubblicato il 6 Febbraio 2025
“Empty gift” – Ripensando al Natale: tra un consumismo sfrenato e una spiritualità nascosta, dov’è finito il senso?
di Anna Maria Francioni

Un fiume di lacrime misteriose bagna la tua pelle delicata mentre, cercando di nasconderti, con i tuoi occhi furbi e attenti osservi se qualcuno intorno si è accorto di te. Non c’è molto tempo, e il piccolo Dauda grida a tutti in modo euforico che stai piangendo.
Le lacrime dei bambini, paradossalmente, molto spesso, mi trasmettono una piacevole sensazione d’istintiva libertà, manifestazione di un’indole naturale che con leggerezza si rivela, ancora non infranta dall’impostazione rigida di noi adulti, anche troppo abili a trattenere emozioni. I bambini, invece, esprimono immediatamente, sotto forma di pianto, ciò che non subito ha una spiegazione verbale, ma che crea una forma di disagio, sofferenza o insoddisfazione.
Inginocchiata affianco al tuo corpicino, provo a capire cosa alimenta queste lacrime, consapevole che ci potrebbe volere tempo prima di scoprirlo. Dopo due, tre volte che ti pongo domande nel tentativo di scoprirlo, ho imparato da te che è meglio spezzare il momento, così ti prendo in braccio e andiamo a cercare il tuo pupazzetto di Superman, che sta girando di mano in mano tra gli altri bambini. Una tazza di the e un dolcetto ci fanno accantonare i motivi di un pianto che ha attirato attenzioni. Ed ecco, il momento tanto atteso; ti domando nuovamente perché piangevi poco prima e, finalmente, mi racconti che a scuola altri bambini ti hanno detto che Babbo Natale non porta regali dove non vede, dalla finestra, le luci di un albero addobbato a festa.
Non abbiamo pensato a questo oggetto, ripetuto in molte parti del mondo come simbolo, a mio parere, del consumismo sfrenato che ammucchiando pacchi sotto i suoi rami agghindati a festa fonde la naturalezza dell’abete con cumuli di beni materiali. Mi rendo conto di come vivere e crescere in un luogo ci accomuni in modo quasi inevitabile alle usanze di quella cultura e di quel popolo, rendendole indispensabili anche alle persone a cui fino a poco prima, probabilmente erano sconosciute. Attraversare ogni giorno la città che quasi esplode di luci colorate ed addobbi, costeggiando negozi dalle vetrine allestite in modo sfarzoso, crea una forma di esigenza quasi inconsapevole di riprodurre quell’ambiente. Come una sorta di rituale collettivo, gli addobbi natalizi, anticipati negli ultimi anni, perché già dopo i primi di novembre vengono condivisi sui social e allestiti a cascata ovunque, richiamano ad un senso di festa, di eccesso alimentare e di benessere. Tutti questi simboli aiutano a creare uno stacco con la routine quotidiana, perché, per moltissimi, scandiscono l’avvicinarsi del tempo della pausa, del riposo dal lavoro, e l’immersione in uno stato condiviso di “trasgressione” o libertà dalle restrizioni che accompagnano l’anno, quando diete e ritmi sferrati appesantiscono la libertà individuale.
A scuola i bambini nati in questa città hanno un ‘idea limitata dalla loro età e da ciò che fino ad ora hanno appreso come unico e corretto ed il loro modo di condividerlo con compagni provenienti da altri paesi, a volte anche in modo brusco e diretto, crea un desiderio, in chi già si sente diverso, di avere e organizzare le proprie tradizioni in modo consono alla nuova realtà. La religione e le pratiche ad essa connesse riescono a rimanere salde nelle abitudini anche dei più piccoli, per esempio il divieto di assumere carne di maiale è fortemente saldo nelle abitudini dei popoli musulmani e condiviso in modo fiero. Tuttavia, ciò non avviene quasi mai per i beni o le usanze materiali.
Stiamo allestendo il nostro albero di Natale, vi osservo girare attorno ai rami mentre vi aggrovigliate alle lucine accese, le piccole di due e tre anni giocano rotolando a terra queste strane palline rigide e colorate e io cerco di fissare una stella che dovrebbe decorare la punta più alta del nostro abete finto, quasi a sottolineare la fragilità di questa composizione. Mentre cerchiamo di fissare la punta, un pensiero mi attraversa: come mai alcuni simboli materiali, come gli addobbi natalizi, sono così fragili e permeabili, mentre altri, come il divieto di mangiare carne di maiale, restano così saldi nelle abitudini, anche tra i più piccoli?
È evidente che le usanze religiose, per loro natura intrise di significato sacro, si tramandano come parte integrante dell’identità. Al contrario, le pratiche legate al consumo si adattano, si sovrappongono e a volte si impongono, creando un nuovo linguaggio culturale, spesso svuotato di profondità. Questo contrasto emerge in modo evidente nella quotidianità italiana, dove le tradizioni locali, spesso frammentate o dimenticate, convivono con l’imposizione di un modello globale che celebra l’ostentazione.
I bambini, cresciuti in un contesto culturale che li espone fin da piccoli a un’immagine standardizzata del Natale, tendono a considerare unico e corretto ciò che vedono intorno a loro. È così che compagni di classe nati in Italia, con naturalezza e senza malizia, finiscono per escludere chi non partecipa visibilmente al rito del consumo, come se la presenza di un albero fosse la condizione necessaria per far parte della festa.
Questa dinamica riflette una tensione più ampia nella cultura e nella politica italiana. Da una parte c’è un forte attaccamento alle tradizioni locali e religiose, dall’altra una sempre maggiore omologazione ai modelli globali di consumo. Il Natale diventa, così, il simbolo di questa doppia anima: un momento di riflessione sulla spiritualità e la famiglia, ma anche un’occasione per esibire il proprio status attraverso luci, regali e banchetti. Le politiche culturali, spesso inefficaci nel valorizzare le diversità e le tradizioni autentiche, finiscono per assecondare questa deriva consumistica, senza interrogarsi sul suo impatto sociale e identitario.
Eppure, tra le pieghe di questa celebrazione ostentata, ci sono spazi di resistenza, come il nostro pomeriggio, durante il quale, in televisione, musiche di Natale, canzoni arabe e video vari si alternano a grida euforiche. Assieme alle vostre mamme chiacchieriamo, ridiamo e ci alziamo per improvvisare qualche passo di danza, quando, inaspettata, parte una canzone che ci attiva, poi torniamo nuovamente seduti, chi a terra, chi sul divano, chi su una sedia, e affrontando argomenti più seri, che esternano le preoccupazioni diffuse per un futuro incerto.
Qua e là sguardi illuminati dalla gioia di questo gruppo di bambini, che si è impossessato felice del suo spazio in questa società consumistica, simbolo di un’ostentazione generale amplificata durante lo spazio della festa ma che, tra le filigrane di questa mia idea del Natale, sta dando vita ad una socialità di condivisione e gioia, creando uno spazio di serenità condivisa da tutte e da tutti noi. È un Natale che non cerca di replicare un modello preconfezionato, ma che dà vita a una socialità autentica, fatta di partecipazione e gioia.
Recuperando il senso originario della festa come tempo sacro, capace di creare comunità e dare un significato profondo al vivere insieme. In un’Italia che fatica a trovare un equilibrio tra tradizione e innovazione, questo piccolo momento di serenità condivisa rappresenta una forma di resistenza alla logica dell’omologazione. È un richiamo alla necessità di ridefinire le nostre feste, non come momenti di consumo, ma come occasioni per costruire un senso di appartenenza che non escluda nessuno. Un atto semplice, forse, ma che, come le lacrime di un bambino, ci ricorda il valore della spontaneità e della sincerità in un mondo che sembra averne sempre meno.
Anna Maria Francioni
Immagine: Pascale Marthine Tayou, Empty Gift, 2013, pacchi vuoti, motore diametro 3 m 2013 | Foto: © Monkeys Video Lab | Courtesy ADAGP, Paris
Rivista di Antropologia Culturale, Etnografia e Sociologia dal 2011 – Appunti critici & costruttivi