Nell’odierno Iraq, sul versante kurdo di un monte assolato della catena montuosa degli Zagros, giace semieretto un cumulo di pietre usurate dal tempo cui hanno dato nuovo spirito un gruppo di archeologi italiani della Sapienza. Il luogo preciso, chiamato Paikuli, era un crocevia tra la provincia sasanide dell’Asurestan con la capitale Ctesifonte e l’altopiano iranico. Nulla – ancora – ricorda che in questo luogo i notabili dell’impero attesero l’arrivo di Narseh dopo la sua vittoria su Wahram III, per riconoscerlo come nuovo sovrano sasanide, ultimo regno preislamico dell’Impero Persiano.
In quel periodo Narseh, figlio di uno dei più celebri sovrani della dinastia sasanide, Šābuhr I (240-272 d. C.), era viceré d’Armenia, un titolo spesso associato all’erede al trono. Venuto a conoscenza di un tentativo di manipolazione della sua successione da parte di Wahram III, Narseh aveva marciato con il suo esercito verso sud raggiungendo il passo di Paikuli dove aveva incontrato una delegazione di Grandi del regno disposti a riconoscerlo come legittimo sovrano e a offrirgli la corona del regno iranico (Ērānšahr).
Anni dopo, a Paikuli, tra il 293 e il 302/3 d.C., al fine di commemorare l’avvenuta vittoria sui nemici usurpatori e la restaurazione dell’ordine sociale, Narseh aveva fatto erigere un monumento recante, su due lati, una lunga iscrizione bilingue in mediopersiano e partico. Conosciuta oggi come epigrafe di Narseh è una delle più significative fonti a noi pervenute sulla storia del primo periodo sa