Pubblicato il 24 Aprile 2024
Etica dell’Intelligenza Artificiale: se la relazione anima e automa funziona
di Chiara Nisi
I Greci avevano modi differenti di denominare il corpo (concepito nelle sue parti singole, più che nell’insieme) e l’anima. In Omero, il termine σῶμα, corpo, è usato esclusivamente per i cadaveri, e non allude alla presenza di un’anima in esso. L’unica espressione che allude al corpo nei poemi omerici è “le membra”. Il corpo, nel senso più vicino al nostro, era di fatto riconosciuto nei diversi impulsi o nelle diverse capacità ad esso attribuite: il coraggio, il pensiero, l’intenzione, termini astratti che venivano a spiegare la complessità dell’essere umano riversata nella sua concreta esistenza.
La parola anima viene dal greco ἄνεμος, vento – semanticamente affine all’etimologia di θυμός (thumós), una parola che può essere anche tradotta come impulso, anima e che ha la stessa radice del nostro termine italiano fumo, con allusione a qualcosa di evanescente, al pari del vento, quindi indefinibile, proprio perché, per assunto, l’anima non è un processo che può essere “detto”, non è ripetibile né, tanto meno, prevedibile.
Entrambi i concetti, dunque, quello di anima e quello di corpo non hanno di per sé nulla a che vedere con l’automazione, poiché sono collegati a processi spontanei, di sviluppo e crescita naturale, chimica, fisica, una crescita non meccanizzata né quantificabile nei dati, perché le variabili che agiscono su anima e corpo e ne determinano le azioni sono, in proporzione, infinite.
Questo preambolo non vuole sminuire l’automa e tutto ciò che è oggi straordinariamente legato ai processi di creazione di intelligenze e corpi artificiali, ma partire dall’assunto che questo è altro dall’uomo.
L’intoppo più grande, che ci fa oggi temere l’IA, è forse l’inconsapevolezza: se abbiamo paura dell’intelligenza artificiale, dobbiamo chiederci se crediamo abbastanza nell’allenamento di quella umana, impigrita da convinzioni passive, che ostacolano la vita attiva. Il rischio che corriamo è dunque quello di potenziare la macchina, trascurando l’uomo. Ma è bene partire dal presupposto che ingegnerə, informaticə, analistə fondano il loro lavoro sulla ricerca, su un esercizio venerabile, su un’osservazione scrupolosa, su uno studio accurato nel quale poter avere fiducia, se la social catena leopardiana ha una ragion d’essere, e se quello che muove l’uomo a creare e dominare la macchina ha un fondamento etico.
Siamo in fondo già immersi in un mondo che non riesce a fare a meno della techne, e siamo in tempo per non dubitare dell’innovazione, se disposti a comprenderla.
Tuttavia l’umano non è avvezzo al cambiamento, pur essendo cambiamento. Tendiamo all’immutabilità delle cose con anime goffe e inconsapevoli. Restare umani nel divenire è un esercizio di fede e, in questa ottica di fermezza, chi può avere paura? Comprendere le trasformazioni è sempre determinante, nella maggior parte dei casi risolutivo: lo sforzo tutto umano sia allora quello di com-prendere le cose, ascoltarle con l’azione dei sensi, sensi che una macchina non potrà mai avere. C’è un potenziale nel corpo tendenzialmente infinito, ma lo dimentichiamo, per fare spazio alla finitezza, che è una zona di comfort e non implica lo sforzo della ricerca. Così come esiste un potenziale infinito nelle emozioni, nelle attrazioni e in tutto ciò che si verifica in noi mediante processi che non sono razionalizzabili (perché ci piacciamo o respingiamo, perché reagiamo, perché sentiamo e percepiamo in modo differente…).
L’intelligenza artificiale potrà aiutare l’uomo, aiuterà l’uomo, con un meccanismo di evoluzione soggetto a precisi controlli ed equilibri. L’umano non può avere questa precisione, questo controllo, per fortuna, perché ha delle singolarità irripetibili.
Scrive Maurizio Ferraris, professore ordinario di filosofia teoretica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino:
È la corporeità con i suoi bisogni a far sì che l’intelligenza umana si sviluppi in un contesto sociale e in un rapporto essenziale con la tecnica. In quanto inserita in un corpo, l’intelligenza presenta principi finalisti che non si trovano nelle macchine. […]
Quando trasferisco il mio archivio da un computer a un altro, la natura dell’archivio non cambia con il cambiare del suo supporto fisico. Ma se trapiantassi il mio cervello nel corpo di un altro non sarebbe più la stessa intelligenza, e possiamo essere certi che in breve tempo la mia responsività (percezioni, gusti, preferenze, e ovviamente anche finalità) sarebbe radicalmente trasformata dal semplice possesso di un corpo diverso.
L’anima è irrazionale per eccellenza, l’automa è razionale e va bene così, perché è strumento dell’uomo, è fatto per significare, è fatto per un’anima che ha bisogno di computer, telefoni, semafori, che ha bisogno di techne per migliorare il suo status.
Perciò non rischiamo la spersonalizzazione, se restiamo ascoltatori di noi stessi. Il problema eventualmente sta nella pigrizia dello spirito, che purtroppo esiste a prescindere dall’avvento della robotica.
L’ingegneria è una disciplina geniale, l’informatica lo è, l’analisi dei dati, introducono nuove forme d’azione continuamente; potremmo ad esempio smettere di temere l’assenza di lavoro, perché evidentemente se ne creeranno altri, se restiamo lucidi ed etici.
Un’etimologia esemplificativa: la parola intelligenza viene dal latino intus, dentro, e legere, leggere, dunque allude alla capacità di leggere dentro, oltre. Quell’oltre è una prerogativa della sensibilità umana.
Non costruiamo allora un futuro fondato sulla paura, ma sulla comprensione: non ho paura della novità, ma comprendo la novità. E in fondo abbiamo già compreso smartphone, navigatori, Alexa, e li governiamo, nella buona disposizione d’animo, perché sappiamo interrogarli. Del resto, se non poniamo le domande giuste, avremo comunque le risposte sbagliate: questo è uno dei focus di Luciano Floridi, professore ordinario di filosofia ed etica dell’informazione presso l’Oxford Internet Institute dell’Università di Oxford e professore di Sociologia della comunicazione presso l’Università di Bologna, in Etica dell’intelligenza artificiale, pubblicato da Raffaello Cortina Editore (2022).
Ci tranquillizzava già Isaac Asimov ne I robot e l’impero: Legge zero:
un robot non può recare danno all’umanità, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, l’umanità riceva danno.
Chiara Nisi
Immagine: G. DAGLI ORTI /DE AGOSTINI PICTURE LIBRARY / BRIDGEMAN IMAGES in AramcoWorld Robots of Ages Past
In servizio come ingegnere tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo presso una corte dell’Anatolia, Ismail al-Jazari era un polimatematico i cui interessi spaziavano tra arte, matematica, ingegneria e design. Nel 1206 scrisse Il libro della conoscenza dei dispositivi meccanici ingegnosi. Il libro è una raccolta magistrale di oltre 50 dispositivi meccanici e automatizzati, tra cui orologi ad acqua e a candela, bacini automatizzati per lavare e versare, e le prime rappresentazioni di automi come questo che combinava idraulica, alberi a gomito e pompe, oltre a valvole e pistoni
Fonte grafica e contenuti: AramcoWorld, Robots of Ages Past
Rivista di Antropologia Culturale, Etnografia e Sociologia dal 2011 – Appunti critici & costruttivi