Pubblicato il 7 Agosto 2019

L’alterità e il diritto all’ospitalità

di Giacomo Buoncompagni

accoglienza diritto all'ospitalità teoria sociologia antropologia cultura

I grandi spostamenti di popolazioni e le trasformazioni culturali della globalizzazione hanno provocato una ridefinizione degli spazi sociali e una revisione profonda dei concetti di argine e di confine. Tali processi culturali e giuridici in realtà ci riguardano tutti, non solo come membri di Paesi ospitanti, ma anche come prossimi ospiti di un mondo globale interconnesso, dove paradossalmente siamo sempre più vicini in una reciproca estraneità, sempre più connessi in quanto stranieri e sempre più stranieri all’interno di un singolo e ampio spazio che intreccia le nostre esistenze.

Le frontiere entro cui custodiamo le nostre identità, più o meno gelosamente, si fanno sempre più labili e rigide per il decentramento dei processi produttivi e dislocazione economica; il vero rischio è che queste si trasformino in solide barriere, strumenti di difesa di un’identità culturale. E’ anche innegabile che un’apertura indiscriminata delle frontiere non aiuterebbe in alcun modo un’inclusione sociale pacifica, ordinata e flessibile, soprattutto in assenza di un’adeguata e programmata regolamentazione dei flussi migratori

A rendere ancora più complessa l’interpretazione e l’analisi di tale scenario è il diritto internazionale (Debray 2012) che non riconosce il nuovo spazio comunicativo, globalizzato e multiculturale come spazio “aperto e interconnesso”, ma sembra seguire ancora la logica della frontiera (e non solo territoriale) suddividendo il mare in tre zone distinte: zona economica esclusiva, zona contigua, acque territoriali. Dunque, mentre l’economia sconfina, supportata dal digitale e dalla finanza, il diritto ha bisogno di limiti, di luoghi precisi e delimitati ed è in questo senso che la legge stessa si ritrova, paradossalmente a dividere l’omogeneo e il diverso, il residente dallo straniero, l’altro dall’altro, pur mantenendoli in costante rapporto.

E’ lo stesso diritto prima di tutto a non essere “ospitale” in molti casi, mentre altre volte si mostra come strumento in grado di offrire riparo, pur limitato da ragioni economiche e politiche. Il confine diventa uno “spazio di confine”, uno spazio strano che mettendo in contatto separa, ma che separando mette in contatto identità, culture e soggetti differenti.

La correlazione tra unione e separazione rimanda al simbolismo della porta di Georg Simmel (1909): «la porta presenta, in modo più netto, come separazione e congiunzione non siano altro che due facce della medesima azione; ma dal momento che può essere aperta, la sua chiusura offre il sentimento di una più forte chiusura nei confronti di tutto ciò che è al di là di questo spazio, più incisivamente di quanto non lo faccia la parete priva di ogni articolazione » .

La possibilità di un passaggio si concretizza nel pensiero simmeliano e si lega ad un altro questione, quella cioè dello “sradicamento” che attraversa la civiltà post-industriale e post-materiale e finisce per caratterizzare il nostro modo di soggiornare nel mondo. La condizione dell’ ‘essere radicato nell’assenza di luogo’, e quindi lo sradicamento, è di gran lunga la più pericolosa malattia della società umana (Weil 1996) perché si moltiplica generando perdita dei vincoli comunitari e della coerenza di significato del mondo, ovvero, la crisi della civiltà europea.

Il problema reale che mette in conflitto la questione etica-umanitaria, con quella politica, culturale e giuridica in merito ai flussi migratori, è questo enorme paradosso, tra cultura e comunicazione globale-digitale e diritto che, nell’era della globalizzazione, non riesce a configurarsi come “ aperto “ e “globale” appunto.

Superare il conflitto socio-culturale e giuridico, quel paradosso tra sfera tecno-comunicativa ed economico-giuridica, significa innanzitutto ripartire dall’esperienza dello “sradicamento”che ci pone inesorabilmente in rapporto all’estraneità dell’Altro, ripensando la dimensione essenziale dell’etica, non malgrado l’estraniazione e l’esilio, ma a partire proprio da tali esperienze e dall’ambivalenza che ci costituisce come stranieri nella nostra dimora (Marci 2003).

E’ all’interno di questa situazione di globale estraniazione, emerge la necessità di ripensare, sul piano universale e non locale, i fondamenti etici e giuridici della nostra cittadinanza mondiale, di riconsiderare la capacità universalizzante di un diritto capace di includerci “come altri tra altri, “qualificando eticamente la nostra estraneità e consegnando la nostra alterità al piano giuridico di un’inclusione ospitale” (Marci 2017).

 

Giacomo Buoncompagni

Giacomo Buoncompagni è dottorando in Sociologia presso il Dipartimento di Scienze Politiche, della Comunicazione e Relazioni Internazionali dell’Università di Macerata.

Per approfondire:

Marci T., La società degli altri. Ripensare l’ospitalità, Le Lettere, 2017.

Debray R., Elogio delle frontiere, Add Editore, 2012.

In fotografia: una porta di Pontremoli, Bernardo Ricci Armani Italia, 2011.

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